RACCONTI di Eliana Lista

Categoria: Narrando

RACCONTI di Eliana Lista

ElianaPartenope mi fece ....Lupiae mi tenne

Sono  Eliana ma è “nemesiel” che mi somiglia….è un modo di essere, uno stato dell’esistenza.                 

Scrivo per esorcizzare o gridare, a volte per sussurrare o per fare silenzio.

Scribacchina dei miei sogni, di sentieri distorti, di vestiti mal cuciti, di equilibri cercati e mai trovati, del sole e del crepuscolo che mi vivono dentro.

Predatrice di nuvole, odio il disincanto: mi tengo stretta la  voglia di stupirmi della banalitĂ , dell’ordinario.

 

 

 

 

 

FAVOLE DAL QUOTIDIANO Per il racconto FAVOLE DAL QUOTIDIANO

 

 

E poi c’è il quotidiano, mio dolce amico, quel banale e semplice quotidiano che, se lo osservi e lo ascolti con attenzione, ti riserva sempre sorprese che a volte danno risposte, altre pongono nuovi quesiti ma che, in definitiva, ti stupisce sempre.
Stamattina ad esempio.
Studio del mio dentista, controllatina per questa benedetta articolazione mandibolare che mi dĂ  sempre problemi, di fronte a me una coppia di mezza etĂ .

Lui straniero, forse inglese, lo sento da come parla l'italiano, con quell'accento tipico maschio e pacato che trasmette sicurezza. Alto, possente, brizzolato, ha in una mano un libro di filosofia, sulla metafisica aristotelica se leggo bene il titolo,  con l'altra tiene la mano di lei.

Con tenerezza ma anche con timore, stringe quella mano piccola e paffuta come una sorta di antifurto, come se quella donna fosse un tesoro così prezioso da non poterne distogliere la sorveglianza neppure per un attimo. Intanto le racconta del suo incontro con un amico e con una dovizia tale di particolari da farla partecipe di ogni sua piccola sensazione.
Se è costretto a lasciarle la mano per un attimo, per un gesto che accompagni le parole, svelto è pronto a riprenderla… per non spezzare quel filo invisibile eppure così presente, tenace fra loro.
Cosa c'è di così eclatante, dirai tu. Aspetta porta pazienza.
Lei è.... Ecco, come descriverti lei senza apparire io una donnetta idiota come tante, come troppe, che dà importanza all'apparenza? Ci proverò.
Raramente ho visto una donna più... non vorrei dire brutta perché era qualcosa che andava oltre il brutto o meglio diverso dal brutto, Dio è difficile da spiegare! No, forse dovrei dire “meno”, si
meno. Niente di meno femminile, attraente, sensuale. Niente, assolutamente niente di fisicamente affascinante. Aveva una forma... ovale, ecco!
Immagina un uovo trasformato in essere umano. Un uovo a cui hai dipinto un viso e aggiunto gli arti,  con un buffo berretto in testa. Indossava pantaloni e golfino anonimi e incolori.

- Ti sembra strano che non si riesca a definire un colore? - 

Piccola, ovale, insignificante, per giunta le mancava anche un incisivo superiore... non l'avresti neppure notata se non fosse stato per lui.
Per la stridente differenza nell'aspetto fisico. Per i gesti di lui. Così delicati, attenti, inspiegabili.
Ancora niente di strano mi dirai tu. Lo so, ce ne sono tante in giro di coppie simili e ci sembra sempre impossibile che la bellezza dell'uno si accompagni alla bruttezza dell'altra o viceversa e allora, prontamente,  ci affrettiamo a trovarne la spiegazione che è quasi sempre moralmente infelice. Che stupidi, meschini esseri che siamo, anche quando pensiamo di essere liberi da stereotipi e condizionamenti.
Lei lo ascoltava incantata, beveva le sue parole, lo guardava con infinito amore eppure privo di quel senso di gratitudine che ci si poteva aspettare per quell'essere, in maniera tanto appariscente,  opposti,  per essere lei stavolta il principe ranocchio della storia.
Lo ascoltava e gli rispondeva a tratti, con una voce impercettibile e... celestiale!
Si, è proprio quello che ho detto.
Armoniosa, morbida, avvolgente, melodiosa. Quasi musica diventavano le sue parole che scivolavano nell'aria come note. Una esecuzione di cui lui era il solo beneficiario.
Li guardavo, completamente presa.  E lei non mi sembrava piĂą tanto ovale nĂ© brutta  nĂ© insignificante. Li guardavo e capivo perchĂ© lui le tenesse la mano con tanto amore. ChissĂ  quale bellezza si nascondeva in quella donna così invisibile agli occhi degli altri.
Li guardavo e mi si spandeva dentro una commozione che non aveva nome, se non quello della emozionante soddisfazione di sapere, di avere conferma che l'essere umano non è sempre così stolto da dare importanza a ciò che non ne ha ma è tanto saggio da tenere per sĂ© il meglio che la vita gli dona, al di lĂ  dell'apparire, al di lĂ  di canoni estetici tanto labili quanto fasulli  - e dettati da chi poi?
Li guardavo. E avrei voluto essere ovale e con un incisivo in meno ma poter sentire il calore di quella mano che parlava di una intesa unica, rara, preziosa.
Nessuna invidia, no ma una emozione profonda ed una sensazione di nostalgico benessere, una dolcezza oserei dire “universale” un sentimento puro, privo di interesse, al di sopra di ogni sospetto. Una emozione che ripaga dalla fatica anonima del vivere.

Per fortuna non avevo tolto gli occhiali da sole, sarebbe stato imbarazzante... sai, quell'acqua salata che riga il viso  senza dolore e di cui abbiamo stupido pudore.

  29.05.2014 

 

IL GIORNO PERFETTO    per il racconto IL GIORNO PERFETTO

 

 

 

Il giorno era quello giusto.
Fine novembre, un cielo biancastro come una coperta sporca, usata, gettata a coprire strade intasate ed umide, da cui saliva un odore stagnante di muffa che trasportava, fin dentro l’anima, quelle goccioline minute e insidiose che galleggiavano in un’aria ferma e irrespirabile.
Pensava al lago di Antonio. Rivedeva le foto che il suo prezioso amico le aveva inviato e avrebbe voluto, come per magia, essere trasportata su quelle rive, restare lì a guardare quella meraviglia d’autore nell’attesa di veder comparire, magicamente, da quelle nebbie dolci e nostalgiche  - quelle sì, erano nebbie d’incanto, fatate, non questo miasma saturo di fiati e di nulla - tutti quei piccoli personaggi che da sempre collocava fra i paesaggi amati e sconosciuti di un nord dal fascino magico e irreale. Gnomi, elfi, fatine come quelle che aveva sugli scaffali della sua libreria, fra libri di letteratura e filosofia, accanto al suo romanzo preferito, “Oceano mare”, dalle cui pagine spuntava una piccola riproduzione del quadro che adorava:  “L’impero delle luci”. Oh quella luce dove avrebbe voluto accoccolarsi e stare, abbracciata a se stessa, finalmente serena. Quella luce indefinita eppure  intima, accogliente. Dio se avesse potuto farne parte!
Era giunta. Si fermò un istante come per sincerarsi che il posto fosse quello giusto.
Alzò gli occhi verso l’edificio circolare a forma di torre, “Che differenza con la torre di Pisa” - pensò -  e sorrise.
GiĂ  il lago, lentamente, sfumava nei suoi occhi, nella sua mente mentre piĂą intenso avvertiva la presenza del suo compagno di sempre.
Oltrepassò la porta a vetri, perennemente opaca, unta, ricolma di impronte di mani, di tanti, di troppi che velocemente spingevano senza mai accompagnarne il movimento di ritorno. ”Che cose stupide da pensare” sorrise fra sé ancora ma senza alcuna gioia.
Il suo compagno, quel sottile dolore, quel filo che unisce nel tempo e nello spazio persone ed epoche, ricerca spasmodica del senso e del significato della vita, così precaria, fuggevole, fragile.
“L’angoscia esistenziale” - pensava - mentre i passi la conducevano sicura lungo le scale di quell’unico grattacielo di quella città non sua. “ …Sì, quella nebbia che scende fra te e la vita.
E il reale, quel quotidiano che inizi a interpretare come una commedia che non ti appartiene. Gesti, azioni, parole automatiche, trasbordanti significanti privi di significato ma la comunicazione superficiale è garantita, solo che per te conta meno di un soffio di niente”
Terzo piano. Quarto. Quinto…
Qualcuno, tu stessa, tira i fili di ogni oggi mentre il tuo desiderio è dissolverti, sottraendoti a quel dolore, a quel nulla ovattato, a quello strisciante serpente che si aggroviglia nello stomaco mentre intorno, oltre i tuoi incerti confini, solo colori sbiaditi, opachi.
Sei fuori sincrono. Tu e il mondo. Due velocità diverse, due diverse dimensioni, non vi è scopo, fine, senso.
Sesto piano. Settimo. Consumava i gradini di buon passo ma senza fretta…
Sognare. E crearsi un mondo dove la tua stanchezza e il tuo “pesarti” mettano le ali per volare al di sopra di un esistere pieno di cose, azioni, accadimenti, fattori, circostanze, contesti… futili, inutili, insignificanti, faticosi, duri. Miserevolmente “materia”, sangue e carne.
Volare. Sognare. Strapparsi il male dal cuore.
Ottavo piano. Nono. Decimo.

Fine dei gradini e una porta antipanico. Abbassò la grande maniglia rossa e lucida. L’aria la investì  e l’accolse, così le sembrò. Si lasciò accarezzare. Sette passi. Un ultimo gradino, quello del parapetto. La luce. Ora vi sarebbe entrata. Fece l’ultimo passo. Tranquilla.
Il giorno era quello giusto.

 

  29.05.2014

 

IL SENTIERO o dell’onirico reale          Per il racconto IL SENTIERO

 

 

Il sentiero zigzagava fra alberi così alti che lei non ne scorgeva la cima ma non alzava nemmeno gli occhi per vedere quale specie di alberi fossero. Non le interessava saperlo. E così procedeva, un  passo dietro l'altro, guardando le punte dei suoi piedi, intravedendo il lento scorrerle accanto di tronchi tutti uguali, nudi, dalla corteccia liscia.
Procedeva senza chiedersi nemmeno dove portasse il sentiero... non aveva importanza dove conducesse né quanto tempo avrebbe impiegato a percorrerlo.
Un posto come un altro.
Un tempo come un altro.
Non si aspettava nulla alla fine del sentiero, non c'era alcun motivo di affrettarsi ma nemmeno ce ne erano per dilatare il tempo. Del resto spazio e tempo avevano perso di significato. 
E così procedeva... guardando la punta dei suoi piedi.
Non ricordava il momento preciso in cui, senza accorgersene, aveva lasciato la strada principale e si era inoltrata nel sentiero con l'inconscio desiderio di nascondersi o meglio... di non farsi scorgere.
Era accaduto una vita fa ma ricordava di avere con sé, stretto al petto, ciò che considerava indispensabile per procedere, andare avanti, comunque, lungo quel sentiero che, via via, le appariva rifugio e prigione e da cui avrebbe tenuto lontano ciò che aveva cercato a lungo inutilmente ma ora … ora era meglio così, era giusto così.
All'inizio, per un tratto - lungo o breve? - aveva guardato intorno, riconosciuto piante e arbusti, animali e viandanti e aveva dato fondo alle sue scorte, sminuzzandole in briciole da dividere con chi avrebbe incontrato, con chi avesse chiesto.
E così aveva dato e dato e ancora dato.
Le tasche si svuotavano, il viso smagriva ma lei continuava a cercare in fondo ad ogni tasca, qualche briciola, ancora.
GiĂ  da un po' aveva deciso di non alzare piĂą gli occhi verso il cielo e, allo stesso modo, non avrebbe voluto ascoltare il chiacchierio degli uccelli e il capriccio del vento e le favole del mare e il silenzio assordante del cuore e il sussurro ostinato dell'anima.
GiĂ  da un po' sì, avrebbe voluto… ma uccelli e mare, e vento e cuore, e anima... cantavano all'unisono piĂą forte,  piĂą forte, piĂą forte.
E il viso smagriva, umido e caldo.
Le mani, strette a pugno, avevano smesso di cercare e affondavano, dure, nelle tasche ormai vuote mentre lei procedeva un passo dietro l'altro, con gli occhi che fissavano la punta dei suoi piedi.

Un dondolio, quasi una nenia, quasi un cullarsi era il procedere ritmico, automatico dei suoi passi che, uno dopo l'altro, la trasportavano, così, per andare perché non sapeva fare altro, non poteva fare altro.

"PerchĂ© è così che va la vita" - pensava -  e intanto dondolio e nenia e culla avrebbero potuto, avrebbero dovuto, essere due braccia.
Non avvertiva più né stanchezza né dolore.
"Forse dormo - pensava - o forse sono morta".  E il pensiero che lo fosse era così dolce... e poi era rabbia repressa ed impotenza, era ingiustizia subita, frode, inganno del fattore, stupiditĂ  della creatura.  Avere appreso cose che non servono, moneta fuori corso della vita e... fu allora che la vide.
L'ombra, le stava quasi accanto, solo qualche passo più indietro. Chissà quando e come i loro percorsi si erano incrociati, chissà da quanto e perché stavano proseguendo per il medesimo sentiero. Non poteva saperlo, non aveva mai più alzato lo sguardo, non si era più guardata intorno, né voltata indietro.
L'ombra non seguiva lei, era certa di questo, proseguiva per quello che, casualmente, era anche il suo sentiero,  proprio come stava facendo lei e forse, come lei, lasciava che gli alberi, così nudi e così uguali, le scivolassero accanto, muti... indifferenti.
Non seppe perché, non lo avrebbe mai saputo, ma istintivamente e impercettibilmente rallentò il passo. Istintivamente e impercettibilmente girò gli occhi, quegli occhi che erano sempre stati fissi sulla punta dei suoi passi che avanzavano. Di sottecchi, senza voltare la testa, cercò di leggere quell'ombra e quel passo, quel respiro e quel silenzio.
Perché? Che le importava in fondo?
E allora perché si chiedeva chi fosse e cosa lo avesse condotto su quel sentiero?
Perché era un "lui", lo intuiva dall'andatura così come intuiva che qualcosa stava piano accadendo.
Non aveva paura. E non era neppure seccata da quella "intrusione".
"Lui" aveva qualcosa di rassicurante e sì, per quanto assurdo potesse apparire alla sua stessa logica, aveva qualcosa di "familiare", di conosciuto o, meglio, di ri-conosciuto, di atteso.
Ora le era accanto. Fulminea tornò a fissare la punta dei suoi piedi.
Non voleva che "lui" scoprisse il suo stupore, il suo turbamento, la sua... serenitĂ .
SerenitĂ ? Ma come? Come poteva essere?!
Eppure non sapeva dare altro nome a quella sensazione.
Si sentiva serena, si sentiva al sicuro, si sentiva libera.
E senza volerlo, istintivamente, dopo tanto tempo, rialzò gli occhi al cielo.

 

  29.05.2014

 

 

 

UN ALTRO GIORNO DA MENTIRE                         Per UN ALTRO GIORNO DA MENTIRE

 

Eccola. D’istinto, avrebbe detto “Finalmente!”

Ma perché poi...??? Sapeva che niente sarebbe accaduto di nuovo. Niente, neppure quel giorno.

La luce filtrava incerta tra le persiane di legno che ormai non curava più: da tempo aveva lasciato che la polvere vi si accumulasse e coprisse gli antichi splendori. Così come era accaduto alle sue speranze, divenute grigie, opache, rancorose delusioni.

Il chiarore si insinuava morbido, ampliando lentamente il suo raggio, svelando gli oggetti di sempre. La notte ora poteva rimettere all’alba i suoi fantasmi, le sue angosce, i suoi rancori e riconsegnare lei ai suoi quotidiani doveri, ad una routine che le pesava sempre di più, quasi quanto il cielo, il cui colore le era indifferente: azzurro e nuvole non spostavano di una virgola il nulla che la scavava dentro. No, il cielo non l’avrebbe fatta piangere né portato pioggia sulla distesa di inutile terra che era la sua anima o qualunque cosa fosse quella vaga penombra dove si era persa.
Scostò le coperte. Un altro giorno da vivere.

Come ogni mattina era stanca ma non assonnata eppure... da quand’è che non dormiva?

Una domanda consueta, muta, priva di emozione.

Le gambe penzoloni dal letto, le mani che stringevano il piumone ancora caldo del suo corpo, quasi a racimolare nel pugno il coraggio di mettere in moto la quotidiana drammatizzazione.
Un altro giorno da... mentire.

La nausea arrivò puntuale, familiare, stringendole lo stomaco in una morsa che poi diveniva esplosione di una angoscia che avrebbe voluto rigettare fuori di sé ma che l’aggrovigliava sempre di più. Ogni giorno un po’ di più, lasciandola di pari sempre più debole ed arresa.
Premette forte le mani sugli occhi quasi ad impedire invece, con quel gesto, che tutto ciò accadesse. Non si meravigliò dell’umido che avvertì sotto le dita, superflua testimonianza delle lacrime silenziose versate nel buio, vuoto e lunghissimo, delle sue notti.

Ricacciò indietro l’urlo che le salì alla gola che avrebbe lacerato l’aria e squarciato il petto, come quello di un animale ferito che non capisce il perché della sua sofferenza.
Il pugno si abbattè sul materasso, tanto silenzioso quanto inutile. Infilò le ciabatte. Si tirò in piedi. Passò le mani tra i capelli.

Pochi passi. Spalancò la finestra e accolse con gratitudine la sferzata gelida di quell’aria pungente di febbraio. Cielo, sole e nuvole bianche.

Vent’anni prima... avrebbe respirato a fondo, si sarebbe avvicinata a due lettini e... “Sveglia tesori miei. Guardate! Forse, oltre le nubi...” e avrebbe atteso le voci bianche - piccoli campanelli d’argento - sgranare la loro meraviglia gridando all’unisono nel giocoso prosieguo ”...è già primavera!!!!!”
“Mamma, mammina... che bello! Fra un po’ arriverà. Vero mammina mia?”

Era per quelle voci, per quei visi, per quella dolcezza e per la loro vita che aveva accettato tutto. Taciuto e ingoiato. Sorriso e lavorato. Accettato che l’anima si spezzasse e negasse la donna per essere solo madre.

Aprì la doccia, si infilò sotto il getto bollente... e pianse silenziosamente, negandolo a se stessa.
Dio, non c’era posto al mondo migliore per piangere e mentire al suo cervello.
Lo scroscio caldo le donò l’abbraccio che avrebbe voluto. Le gocce scivolarono sul corpo snello, ancora armonioso nonostante le fatiche. Né cellulite né grasso lo avevano appesantito, a differenza di moltissime donne della sua età.

Rise. Una risata amara, beffa di se stessa. A cosa le era servito essere una donna piacente?
Non si poteva definire bella, il viso sottile e triangolare era però addolcito dalle striature dorate dei capelli morbidi e ribelli ma era dotata di fascino, quel sottile, indecifrabile fascino che lentamente si insinuava nelle pieghe dell’anima dei suoi interlocutori. Di un certo tipo di uomini, in particolare, che dopo averne ammirato la fisicità eclatante, l’elegante proporzione, la ricordavano in seguito per la sottile intelligenza e la soffusa, piacevole ironia del suo porsi o del suo infiammarsi, quando l’argomento toccava le corde dei suoi ideali, di tutto ciò in cui credeva e in cui aveva profuso e speso il quotidiano.

SensualitĂ  profonda e severitĂ  pungente in una malinconica dolcezza: Francesca era solo in parte consapevole di tutto questo.

Si vestì in fretta. Le sue mani sceglievano automaticamente colori e accessori intonati. Aveva ereditato dalla madre il gusto dell’abbinamento, il tocco magico del particolare che ne stigmatizzavano l’eleganza. Come dalla madre aveva ereditato, forse assorbito, la sua predilezione per il bianco, indossato in ogni stagione e per il fascino discreto del giro di perle che ornava il collo esile e lungo che ricordava le donne malinconiche, ferme e fragili di Modigliani.
Passò accanto alla porta di quella che era stata la sua camera matrimoniale, gli occhi caddero sulla sagoma ancora avvolta nelle coperte, in un sonno profondo e indifferente.

Un istintivo moto di repulsione, una nuova ondata di nausea seguita da quel rancore che, ogni volta, mutava in rabbia con una velocitĂ  impressionante. Le solite, identiche sensazioni di ogni giorno a cui non riusciva a rassegnarsi, sulle quali non sapeva gettare un velo di indifferenza.
Se quella sagoma si fosse dissolta nel nulla... Dio, se fosse bastata la forza del pensiero.
La sua rabbia, il suo desiderio, la sua voglia di respirare, cozzavano contro la sua viltà, frutto, forse, della prigionia dei suoi princìpi. Ma non cercava giustificazioni. Non aveva avuto il coraggio, questa era la verità. Non aveva avuto la forza sufficiente per urlare al mondo la sua sconfitta, il suo errore, il nauseante fango in cui si era ritrovata.

Quella desolante sagoma che dormiva ancora mentre lei andava a lavorare, che ciondolava per casa curandosi esclusivamente dei propri bisogni primari, che non era mai stato in grado di assumersi responsabilitĂ , che l’aveva svilita e depredata e ancora continuava a spremere le sue forze... quella sagoma che ignorava il suo disprezzo e che non aveva amor proprio, che si era adagiato in una situazione di comodo  trasferendo pian piano sulle sue spalle la responsabilitĂ  di una famiglia, lasciando che fosse madre e padre, sola, stanca, oberata da responsabilitĂ  e, piĂą di ogni altra, dalla lacerante sofferenza, dalla fatica fisica e psicologica della lotta durata cinque anni contro la malattia del figlio. Quella malattia che gli aveva strappato l’adolescenza e rubato il sorriso per gettarlo nel mondo del dolore crudo, ingiusto e senza senso dei reparti pediatrici di mezza Italia, dove i bambini si presentavano facendo seguire al nome, la sigla della propria malattia... il nome in codice della belva che li dilaniava. Aveva dovuto combattere contro la burocrazia e l’inefficienza, aveva urlato contro l’indifferenza e l’approssimazione ed abbracciato corpi scossi dai singhiozzi,  stretto mani fredde e convulse che, come le sue, si erano aggrappate all’empatia e alla solidarietĂ  di altre madri, cercando conforto in altre crocifissioni.

Quella sagoma... era il padre dei suoi figli. Nicolò e Ivano, l’unica cosa bella che lui le aveva donato, inconsapevolmente donato, in notti a cui ripensava con incredulità e disgusto.
No, non l’aveva mai picchiata né costretta ma ci sono mille modi per ferire, per annientare, per far morire.
Almeno aveva avuto il coraggio, anni prima, di spezzare quell’angoscia notturna, quando l’alito pesante di alcool e fumo assaliva la sua pelle e lei pregava, inerte e immobile come una bambola di stracci, che tutto finisse in fretta e che in fretta lui si rigirasse dall’altra parte.
Una notte, non peggiore delle altre, si era trasferita a dormire nella stanza degli ospiti e non si era mai piĂą fatta sfiorare.

Aveva provato a parlarne ai suoi, così lontani ma la sua angoscia rimbalzava contro la loro rigida, ingiusta, impietosa etica formale. Comprendevano il suo malessere ma non l’avrebbero sostenuta nella sua decisione.

Le apparenze andavano salvate. Voleva forse finire sulla bocca di tutti? Non era la prima, non sarebbe stata l’ultima. Le donne coprono, nascondono, capiscono, sopportano.
Venticinque anni. Ogni fotogramma le sfilò innanzi veloce mentre scendeva i gradini della elegante scala in marmo bianco dalle colonne in noce. Quella scala stessa non era che l’apparenza di un fasto inesistente.
Si fermò nell’atrio di ingresso. Si guardò allo specchio ed indossò, insieme ai guanti, il suo più radioso e falso sorriso.

Un altro giorno di lavoro. Un altro giorno da vivere. Un altro giorno da mentire.

  07.03.2014

 LA VISITA

 

              Per LA VISITA

I tacchi ritmavano lungo il corridoio deserto. Come sempre, aveva il cuore in gola nell’avvicinarsi alla porta dello studio. Ecco, era lì ormai.
Arianna si fermò un attimo per respirare a fondo, nella speranza di rallentare la corsa del cuore. Tese l’orecchio ma nessun rumore le giungeva dall’altra parte mentre, al contrario, le sembrò che il suo battito potesse espandersi all’infinito e che tutti avrebbero potuto ascoltarlo.
Bussò. Solo pochi istanti e la voce all’interno, morbida e asettica, rimandò un “Avanti” di rito, come a chiunque. Solo che lei non era chiunque o almeno pensava... aveva creduto... di non esserlo, lo aveva sperato.
Si mascherò dietro uno smagliante sorriso nell’entrare, assumendo quell’aria noncurante e indolente che aveva imparato ad indossare per non tradire la sua fragilitĂ . Il corpo snello e flessuoso scivolò all’interno, le sue lunghe gambe percorsero con eleganza i pochi passi mentre lui si alzava, la ammirava, lasciando scorrere con insolenza lo sguardo sulle sue morbide linee mentre le sorrideva di rimando. Quel sorriso, così amato e che ad occhi distratti sarebbe apparso dei piĂą cordiali e calorosi e che ai suoi appariva quale era in realtĂ : un sorriso di trionfo.  Quello del cacciatore che conosce la sua preda, che sa di averla in suo potere... ed era vero ma neppure lui sapeva fino a che punto.
Le prese la mano, la portò alle labbra... la sfiorò annusandola, la assaporò con le labbra appena dischiuse, quel tanto perché la punta della lingua lambisse impercettibilmente la pelle candida e diafana... quel tanto perché in lei esplodesse il doloroso desiderio, così familiare, di lui mentre lentamente le girava la mano e stampava il marchio, della sua bocca e della sua arroganza, sull’interno del polso. Intimo, morbido, avvolgente gesto. Gesto che affermava il suo appartenergli il suo territorio...
La tempesta dell’anima e dei sensi esplodeva in lei ma dal suo viso non traspariva nulla. Come ogni volta, aveva seguito il rituale con una lieve risata ironica accompagnata da poche parole: “Il solito. Non cambi mai, non ti sei stancato di essere tanto ripetitivo e prevedibile?”
E lui stava al gioco. ”Mi tratti sempre male... Sei stupenda! Non riesco ad arrabbiarmi con te...”
E partivano le solite domande, seguite dalle medesime risposte... da anni. Sì, ormai erano anni.
Anni, da quando si erano conosciuti... anni da quando era improvvisamente e inaspettatamente esplosa la loro storia... anni da quando era finita.
Anni che lei non aveva mai rimpianto e che le avevano dato più lacrime che gioia. Gioia che si consumava nell’arco di momenti ma quei brevi attimi erano valsi la pena di una intera vita. Vita che senza di lui non avrebbe avuto senso. Se non si fossero amati, se non lo avesse amato... non avrebbe mai conosciuto quel “delirio ignorante”, quel “tocco di fata”, come lo chiamava il suo più caro amico, che sconvolge l’ordine delle cose, dell’esistenza, del quotidiano, che cambia i parametri di giudizio, che riscrive in una lingua universale il diario incolore del vivere.
L’uomo che le stava di fronte sapeva cose che lei non aveva mai rivelato ad altri. La conosceva meglio di tutti ma la conosceva meno di quanto egli stesso presumesse.
Matteo aveva tirato fuori dalla sua mente e dal suo limbo, la bambina, l’adolescente che non era mai stata, la donna che non aveva avuto il coraggio di essere e che non sospettava nemmeno di poter essere.
L’aveva fatta piangere e urlare. L’aveva indispettita, ammirata, colpita, ferita, amata e...
e si era appoggiato a lei. Le aveva preso quanto di piĂą profondo possedesse, la sua anima, i suoi sogni, le illusioni e i rimpianti, insieme alla capacitĂ  di provare rimorso.
Aveva bevuto da lei, scavato in lei, aveva svuotato tutta la sua possibilità di essere finalmente felice ma Arianna non poteva fargliene alcuna colpa. Docilmente e consapevolmente si era gettata nell’abisso di quel sentimento mai provato, aveva fatti propri i desideri di lui ed i suoi sogni, le sue frustrazioni e le sue rabbie e aveva dipinto fondali inesistenti perché lui vi si muovesse padrone, perché non conoscesse quanto incontenibile fosse quel sentimento e quanto profondo fosse il suo dolore. Ogni incontro, ogni momento d’amore, ogni istante che aveva trascorso con lui era stato accompagnato dalla feroce consapevolezza che fosse un dono tanto prezioso quanto transitorio e mentre lui l’abbracciava con tenerezza o l’amava con feroce passione, lei cercava di imprimere negli occhi della mente ogni istante e nel buio, senza che lui se ne avvedesse, contro la sua pelle, aveva pianto di gratitudine e di lutto.
E come sottofondo sempre il mare. Era la meta di ogni passeggiata, di ogni improvvisa fuga. In ogni stagione, anche in pieno inverno, se ne stavano a contemplarlo abbracciati, a volte in silenzio, ognuno immerso nelle proprie complicazioni, altre camminando come ragazzini, mano nella mano, ridendo e baciandosi, quasi sfrontati e impudichi, ignorando gli sguardi di disapprovazione o di invidia degli altri, come lei non aveva osato fare nemmeno da ventenne, sentendosi finalmente parte di quel mondo che solo ora vedeva.
E d’estate quel mare diventava alcova. Li cullava nel loro donarsi reciproco, li nascondeva e li innalzava, facendosi complice e madre.
Il mare che tanto gli somigliava... lo identificava nella sua forza e mutabilità, nel suo vigore, nella sua accoglienza, nel suo sentirsi parte di lui come quella musica nata sulle sponde, sulle rive di ogni paese di mare… era fado... era morna... era saudade.
Sì, lui le aveva donato lo stupore che non aveva mai conosciuto.
La vita, un giorno, le avrebbe chiesto il conto, lo sapeva e lei avrebbe pagato il prezzo. Accadde.
Era un dolcissimo giugno quando glielo presentò. Il sole era caldo e nessun presagio dentro di lei, nemmeno il minimo sentore della neve che sarebbe caduta, del gelo che l’avrebbe avvolta.
Pagò quel giorno e ancora continuava a pagare.
Pagava. Danzando, come la Sirenetta di Andersen, su aghi di dolore. Danzava nascondendo le ferite... col sorriso sulle labbra e l’abisso nell’anima.
“Hai preso l’antidolorifico che ti ho prescritto?”
“Uhmmm...tu che pensi?” gli chiese sorridendo.
“Lo sapevo che non l’avresti preso!!!” le sorrise di rimando.
“Non prendo medicine per un dolore banale...”
Banale. Come la sua storia. Come il suo amore che aveva creduto speciale, che aveva creduto unico.
C’è niente di più presuntuoso e banale?...
Matteo si alzò. Le si avvicinò, la baciò sul collo, inalando a fondo il profumo di lei, la baciò con dolcezza che divenne forza... possesso...
Sapeva che lei non avrebbe detto di no mentre danzava, ancora una volta, sui rovi del suo amare.

 07.03.2014

LA FARFALLA INCHIODATA 2011

di Eliana Lista

 

Rami - La farfalla inchiodata           La farfalla inchiodata - nebulosa anomala - interpretazione di Rami - vedi ESPRIMERSI dipingendo

 

 

    La lacrima le scendeva sul viso, calda e impotente, mentre lei guardava quell’inutile orrore…ammesso che possa mai esservi orrore che non sia assolutamente inutile.
Lo sguardo era fisso sull’armonia di quelle ali i cui colori spaziavano dal verde smeraldo al giallo intenso…giallo che rimandava all’incredibile luce dei girasoli di Van Gogh, esplodendo poi, nella parte finale, in un arancio intenso, striato da piccoli tocchi, appena accennati, di glicine e violetto. Il tutto, curiosamente, era screziato di nero…come pennellate distratte e casuali dell’artista che, con infinito buon gusto, ne aveva progettato l’esistenza. Urania Ripheus, diceva la targhetta posta al di sotto della bacheca. Urania Ripheus….Le sue ali erano l’immagine stessa dell’eleganza, della bellezza, della leggerezza, della libertà e della fragilità. Libertà. Libertà…mentre un grosso spillo, dalla testa tonda e trasparente, le attraversava il corpo tenendola ferma, inchiodata per sempre su un cartoncino pergamenato, tanto sobrio quanto anonimo e freddo….Ferma, fissata in quel quadrato senza luce, dove tutti ne avrebbero ammirato la bellezza con affascinata meraviglia ma senza alcuna pietà. Ferma per sempre, senza battere le ali, senza sostare sui fiori, suggendone la dolce essenza, senza librarsi nell’azzurro o ripararsi tra le foglie….Ferma nella sua bellezza, di cui non era consapevole, come nessun altra creatura lo è all’infuori dell’uomo…..Ferma e morta-vivente mentre avrebbe dovuto viverli quei pochi giorni che la natura dona alla sua specie, con l’intensità e la non-coscienza che salva dal dolore. Vivere…in uno spazio aperto, immenso, che l’avrebbe condotta, infine, alla morte inevitabile…ma viva fino all’ultimo istante, quando si sarebbe adagiata lenta, come un petalo di un fiore sconosciuto, sulla terra che l’avrebbe accolta, quale madre amorosa, per restituirla a se stessa, a quello stesso grembo che l’aveva partorita.

Il volto di Giuliana si rifletteva sul vetro della bacheca che racchiudeva quella bellezza immobile, sovrapponendosi, stranamente, alle sue ali…donando alle gote della giovane donna i colori di quella splendida farfalla, creando un effetto strano e non solo dal punto di vista visivo. Guardandosi riflessa, le sembrava di indossare una di quelle antiche maschere veneziane che aveva tante volte ammirato, esposte nel piccolo ed elegante atelier del centro, solo che stavolta lei non sorrideva, le sembrava che la sua stessa vita si sovrapponesse a quelle ali, che coincidesse misteriosamente con quel destino. Allo stesso modo sentiva quello spillo attraversarle il petto, conficcandosi al centro dell’anima, lì dove un senso d’angoscia sottile aveva posto il suo nido da tempo ormai: lo avvertiva come la sensazione di un pugno che le comprimeva la bocca dello stomaco, mandando fuori sincrono il cuore. Quei battiti irregolari, a tratti mancanti, almeno così le sembrava, le tagliavano il respiro, ne accorciavano le pause e aveva l’impressione, sempre piĂą frequente, che la vita volesse sfuggirle via in una violenta implosione, proprio al centro del petto. Ancora una lacrima…scendeva lenta e silenziosa, fermandosi in bilico sulla bocca…il sapore salato la riscosse, d’impulso strinse le labbra e vi passò sopra le dita, nel tentativo di cancellare le tracce di quel pianto, di quella evidente sofferenza, agli occhi di chi, passandole accanto, non avrebbe potuto comprendere. Si guardò velocemente intorno, c’erano pochissime persone e tutte intente a guardare, come lei, le bacheche appese ai muri del porticato coperto dell’antico monastero che ospitava la mostra. No, nessuno l’aveva notata. Non che la cosa le importasse poi tanto. Ormai aveva fatto l’abitudine alla facilitĂ  con cui si emozionava alla vista delle inevitabili ed inspiegabili ingiustizie dell’esistenza, alle lacrime che da sole tracimavano dai suoi occhi silenziosamente e… no, in fondo non le importava che qualcuno la vedesse, ciò che le seccava era il dover rispondere, era la fatica che faceva nel far uscire le parole, nel tentativo di spiegare. Non cercava risposte plausibili o logiche, avrebbe solo voluto che gli altri leggessero il dolore dell’esistenza in quei suoi gesti ma…ma oggi nessuno vuol saperne della sofferenza altrui, di qualunque tipo si tratti…bisogna vivere, divertirsi artificialmente, trovare surrogati che mettano a tacere il pianto dell’anima e le domande della mente e se proprio si è costretti a guardarla quella sofferenza fuori di noi, allora…basta un gesto sul cellulare, si compone un numero e si inoltra, con un sms, il “pedaggio” della nostra coscienza, quello che si paga ogni tanto in occasione di questa o di quell’altra tragedia. Uno o cinque euro e basta un attimo, il tempo di un invio e… e si può ricominciare, riprendere a vivere il vuoto, perfettamente anestetizzati.

Si allontanò, dirigendosi al centro di quello che era stato il chiostro e si sedette su una panchina di pietra, riparata da cespugli di pittosporo in fiore che diffondevano il loro profumo così simile a quello delle zagare. Stese le lunghe gambe, reclinò il capo all’indietro e chiuse gli occhi offrendo il viso alla carezza del sole. I vetri degli occhiali si scurirono ancor di piĂą, adattandosi alla forte luce: nessuno avrebbe notato le tracce del suo pianto. Il suo chiodo, quello che aveva fermato il suo volo, continuava a farle sanguinare il petto…ma non c’era piĂą tempo, non c’era piĂą forza per disfare una rete costruita da una scelta infelice e altruista e da una esistenza in cui il caso, la sua sete d’amore e la sua fiducia negli altri, illimitata al punto da rasentare la credulitĂ , l’avevano esposta a ferite che teneva ben nascoste. “Un’inutile orrore, vero?”. La voce le giunse bassa e distinta. Si tirò su velocemente, come riportata d’improvviso sulla terra. Girò il viso in direzione di quella voce e balbettò:  “Come..? Scusi…ma…dice a me?”.  Non riusciva a vedere bene in volto la persona che le stava di fronte. BattĂ© piĂą volte le palpebre mentre l’uomo le diceva: “Oh…Mi scusi lei, la prego…sono stato inopportuno. Era immersa nei suoi pensieri, lo so ma…il fatto è che non ho potuto fare a meno, poco fa, di notare la sua commozione mentre osservava quelle farfalle. Ho visto le sue lacrime silenziose e avrei voluto dirle che capivo…che la capivo… la capisco”. Giuliana non riusciva ad articolare una risposta coerente eppure non provava alcun imbarazzo mentre, si diceva, avrebbe dovuto provarne, in fondo l’estraneo che le stava di fronte aveva visto la sua fragilitĂ , l’aveva osservata piangere e glielo aveva rivelato…ma in modo tanto naturale e pacato che le sue parole l’avevano avvolta e le erano penetrate attraverso la pelle fino al petto smuovendo d’improvviso quel sasso sul cuore. Non si era sentita stupida nĂ© sola nelle sue emozioni e non le era mai accaduto prima, così velocemente e con un perfetto sconosciuto. “Mi chiamo Giuliana e tu?”. Da dove le veniva quell’istintiva naturalezza, non sapeva spiegarselo nĂ© ci pensò tanto. “Emanuele…” dolce e profonda la sua voce mentre stringeva la mano che lei gli porgeva. Ora poteva vederlo bene: gli occhi scivolarono dai capelli neri e leggermente ricci, un po’ lunghi, che ricadevano sul colletto candido della camicia di lino, al viso squadrato e virile dal sorriso aperto e franco…soffermandosi infine, forse piĂą del dovuto, sugli occhi scuri e lucidi, brillanti e profondi…Profondi e ammalianti come sa esserlo un lago che nasconde in sĂ© meraviglie da scoprire…
    Si alzò in piedi e solo allora si accorse della carrozzella su cui lui era seduto.
“Che ne dici di un gelato affogato in un delizioso, profumatissimo caffè….e contornato da tutte le cialde di questo mondo?...” Le sue mani sottili erano giĂ  sui manubri della sedia a rotelle e il sorriso di lui nell’anima, ad illuminarla come una finestra aperta al sole…                                                  “Dico di correre…io ce la faccio e tu?”.

Il sasso sul cuore si sgretolava piano, lentamente, alla carezza del mare.

 

11.01.2014

 


 

 uomini               GLI UOMINI NON SONO TUTTI UGUALI  2011

 

 

   Sentì i suoi occhi trapassarle la carne e dopo un attimo le arrivò l’odore della sua pelle frammisto al profumo d’assenzio: lo avrebbe riconosciuto fra mille. Prima ancora di voltarsi sapeva che lui era lĂ . La collega che le stava di fronte continuava a parlarle, certamente doveva essere importante, visto la foga con cui le uscivano le parole ma lei non l’ascoltava piĂą, non perchĂ© non volesse ma perchĂ© non riusciva a concentrarsi, a pensare. Era così ogni volta. La razionalitĂ  e l’efficienza si dileguavano sconfitte di fronte all’irrazionale emozione che la sopraffaceva al solo avvertire la presenza di Ivano. Si voltò. La stava guardando con un sorriso di prepotente appartenenza. Lei non si mosse, trattenendo il corpo che avrebbe voluto unicamente volargli tra le braccia. Fu Ivano a muoversi verso di lei con quella andatura indolente, imperfetta, cadenzata sul passo destro, come impercettibilmente claudicante e che pure denotava una sicurezza quasi offensiva ed irritante.

   L’affascinava anche per quello…i difetti, in lui, divenivano firma d’autore.
   Ivano l’amava ma con un compiacimento egocentrico. Non amava la donna che lei era, amava ciò che rappresentava, come si ama un trofeo da esibire e Renata ne era dolorosamente consapevole, la sua intelligenza si opponeva alla debolezza della donna innamorata ma inutilmente. Non sapeva, non voleva, non poteva rinunciare a quell’amore che, pure, sapeva essere di serie B. Ivano non avrebbe rinunciato alla sicurezza affettiva di sua moglie e di sua figlia, al suo buon nome, al suo prestigio, a quell’ apparente perfezione nel piccolo, formale, ipocrita paesino di provincia di un sud che era divenuto per lei ancor piĂą soffocante, quel sud così fiero della propria “intellighenzia”, così altezzoso per una superioritĂ  formale mai tradotta in atti efficacemente produttivi. Lui vi apparteneva pienamente pur rivestendosi di un’aria distaccata e critica. Come poteva accettare tutto questo, proprio lei che aveva fatto della lotta all’ipocrisia, ai formalismi, all’ottusa indolenza il suo percorso di donna e di professionista? Non aveva alcuna risposta a questa domanda che le ronzava di continuo nella testa quando era lontana da lui.
   

   â€śTurno finito? Prendiamo un caffè”. Un ordine non una richiesta, come se non potesse esserci alcun diniego, alcuna alternativa. Detestava che le venissero impartiti ordini e Ivano conosceva bene questo suo lato battagliero e ribelle ma si ostinava, ogni volta, in quel rituale di sfida perchĂ© amava farla arrabbiare, percepirne la lotta interiore, una sorta di elettricitĂ  fra loro che gustava come un preludio a ciò che sarebbe seguito, al loro incontro di menti e di corpi. La sorpresa gli si dipinse in volto quando, inaspettata, giunse la secca risposta di lei: “No!”… a cui seguì:  “….Turno finito sì, ma resto per il paziente del 27… Marco…il signor Taddei. Dovrebbero arrivare le ultime analisi e…” . Fu interrotta dalla risatina sarcastica di Ivano, cosa questa che denotava il suo disappunto. Si era ripreso dalla sorpresa ma la notizia non era di suo gradimento e quando ciò accadeva aveva bisogno di deridere, ostentando indifferenza e quell’arroganza sottile di chi sa che comunque l’ultima parola sarebbe toccata a lui. “Dimenticavo!!!! La nostra buona samaritana, dolce con tutti tranne che con me….povero servo del suo amore, così desiderato, inseguito…”. Ancora il gioco, quel suo maledetto gioco che l’attirava e la indisponeva…in cui entrava con il piacere del duello verbale.

   Era cominciata proprio così fra loro. Indubbiamente Ivano era sagace, ironico, intelligente, all’altezza della controparte e in più….quella maledetta alchimia fatta di dialoghi di pensiero e sguardi, di chimica del corpo, di profumi e gesti e di qualcosa che….giĂ  quel qualcosa che ignorava cosa fosse.

   Erano entrambi medici, colti, razionali ma…ma questo non bastava. “Nessuno mai saprĂ  trovare il punto preciso da cui parte quell’onda anomala che è l’innamoramento, l’attrazione…il perchĂ© di quella sensazione di sentirsi unici al mondo a cavalcare i flutti d'un mare d'emozioni….sconosciute agli altri, irripetibili…”, si trovò a pensare per l’ennesima volta, mentre cercava affannosamente una frase sferzante che punisse la sua arroganza . “Marco Taddei non ha bisogno della mia pietĂ  nĂ© di quella di nessun altro…la sua intelligenza e la sua sensibilitĂ , il suo rispetto per tutti e per la vita ne fanno un uomo eccezionale, sotto tutti i punti di vista”. Scandì le parole lentamente e con studiata calma, certa che questo, piĂą di ogni altra cosa, lo avrebbe irritato ma anche perchĂ©, se ne rese conto d’improvviso, pensare a Marco la calmava immediatamente, era come sentirsi avvolta dalla sua dolcezza, dalla sua gentilezza, così lontana dalla rabbiosa inquietudine che Ivano le metteva addosso… “Ah ah ah ah!”, la risata uscì forzata dalla bocca di Ivano che, con un tono di voce piĂą alto di quanto avrebbe voluto, aggiunse:  “Mi sa che te ne sei innamorata…” e di rimando lei: “Non sarebbe una stupida idea. Qualunque donna sarebbe felice di essergli accanto e di avere il suo amore”. Il tono quieto con cui pronunciò le parole colpirono lei ancor prima che Ivano: vi era la forza pacata di una rivelazione in quel che aveva detto…se ne accorsero entrambi.
“Vado” disse lei e per la prima volta Ivano non seppe cosa dire…per la prima volta sentì vacillare il suo potere…per la prima volta tremò al pensiero di perderla.
  

   Renata raggiunse lo studio, si tolse il camice bianco rivelando l’armoniosa figura del suo corpo, si riavviò i capelli e passò un velo di gloss sulle labbra, non amava mettere rossetto e del resto le sue labbra non ne avevano bisogno. Nel compiere quei gesti, così spontaneamente femminili, pensava a Marco, al suo amore per la musica classica, per la natura, per il mare…pensò ai suoi occhi scuri come laghi profondi, al velo di tristezza che li ombrava e che l’avevano colpita sin dal primo momento, pensò alla sua gentilezza, al suo garbo, alla sua discrezione…alla tenacia con cui stava affrontando quella sua malattia, al coraggio racimolato ogni giorno per non esserne psicologicamente annientato. Lavorava caparbiamente, sosteneva incontri di lavoro, seminari, corsi senza mai far pesare sugli altri la sofferenza ed il disagio fisico costanti. Marco e la sua garbata ironia…il suo prendersi in giro…il suo sogno di vivere un giorno in Sardegna…Marco e le loro chiacchierate, divenute una piacevolissima abitudine da cui uscivano entrambi arricchiti, sereni, sorpresi…Sentieri, forse, di una strada che li attendeva….forse, ma tutto questo non aveva alcuna importanza ora. Bussò alla porta socchiusa della sua stanza di degenza, la testa di riccioli chiari fece capolino sorridendo…mentre gli occhi brillanti e lucidi, carichi di una emozione nuova cercavano lo sguardo di lui. “Avanti, prego…” la sua voce maschia e calda, con quella leggera e deliziosa inflessione emiliana che le era diventata tanto cara, le giunse all’orecchio nel medesimo istante.

   Le piacque lo sguardo che lui le lanciò e ancora una volta si sentì avvolta da quel calore d’uomo che con naturalezza lui diffondeva intorno. Ivano e la sua arroganza, la sua immaturitĂ  e il suo gioco, il suo edonistico amore erano lontani mille miglia….
Gli uomini no, non sono tutti uguali. Ora lo sapeva.

 inserito 23.10.2013

 

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