Gli assilli di Saggina

bambina magra Gli assilli di SAGGINA

 

Saggina e le persone poco espansive 

 

 â€œPapà è da tempo che voglio chiederti una cosa, non mi è facile, ma adesso ho deciso.

 C’è una differenza che non capisco tra te e la mamma. Tu, quando io faccio una cosa buona, qualunque cosa, come l’altro ieri che ho preso dieci al compito di matematica, tu mi dici “brava†più volte, mi abbracci, mi baci e mi metti la mano sulla testa che mi piace tanto; la mamma invece sorride un poco e dice OK. Lo so che la mamma mi vuole bene, ma è come se tu me ne volessi tanto di più e… mi piace che me lo dici pure.â€

Il padre che è biologo e botanico, abituato a interagire con “cose†che non fanno domande, è certamente contento della curiosità della figlia, ma prova sempre alle domande di Saggina come se qualcuno lo mettesse al muro, questa volta è peggio: si sente inchiodato, incapace di muoversi, tanto meno di pensare. Per via del confronto e della spiegazione che la bambina esige: confronto tra lui padre e la moglie-madre.

“È… è perché siamo diversi, le persone non sono uguali, c’è chi è più espansivo, come in questo caso, e chi meno, la mamma però ti vuole bene come me.â€

“Lo so papà, però non hai risposto.â€

Il padre si arrende di botto. “La risposta è complessa. Devo pensarci. Cercherò di risponderti. Anzi non ti nascondo, chiederò ad Armando. Lui è psicologo e se necessario ti farò spiegare da lui. Chi meglio!â€

Due giorni dopo, tocca a lui perché Armando è molto occupato.

“Vedi Saggina, molte persone temono di esporre i propri sentimenti, ritengono che la manifestazione dei sentimenti, come la carezza, il bacio, l’abbraccio riveli debolezza e fragilità e per questo carezze e baci non devono essere usati specialmente con i propri figli, che invece hanno bisogno di diventare forti e in grado di affrontare le avversità della vita. Armando, che conosci assai bene, ha aggiunto pure che molti si comportano in questo modo semplicemente perché hanno avuto genitori molto poco espansivi. Che vuol dire che hanno appreso un modello e si comportano allo stesso modo con i loro figli, e questo è sicuramente il caso della mamma, che mi ha raccontato quanto sua madre, cioè tua nonna,  era fredda, sì, ricordo, ha detto proprio fredda.â€

“E io pure dico che lei è fredda, tu invece sei caldo e lei è fredda, ma non è una bella cosa, mi pare.â€

Porca miseria, pensa il padre, e adesso che dico? 

“Sì forse, si può dire, però lei ti vuole bene ugualmente, questo è importante.â€

“Ma non me lo dice, e io posso pure pensare che non me ne vuole… di bene.â€

“Vuoi che finisca il discorso o noâ€. Il padre cerca di distrarla, sa che non riuscirà, e finge si essersi spazientito.

“Armando ha precisato che le persone che temono di dimostrare affetto, premura  o interesse per gli altri sono assai limitati nel comunicare e creano disturbo proprio a quelli che amano.  Alcuni arrivano non solo a evitare le manifestazioni dell’affetto ma addirittura inibiscono i sentimenti. Costoro pensano in questo modo di difendersi da se stessi, insomma temono le emozioni, temono di perdere il controllo di sé. Altri ancora nemmeno le riconoscono le emozioni e non sanno esprimerle per niente, sono definiti “alessitimiciâ€: la “a†vuol dire “mancanzaâ€, “lexisâ€-“parolaâ€, “thymos†-  â€œemozione†e questa è una patologia, perché l’alessitimia crea una infinità di problemi quando si sta insieme agli altri: la comunicazione svanisce e chi si trova in mezzo soffre maledettamente. Non è il caso nostro, stai tranquilla.â€

“Se anche tu fossi come la mamma, penso proprio che da grande diventerei una alessitimica. Meno male che non è così. Io da grande abbraccerò, accarezzerò e riempirò di baci tutti quelli che conosco per non farli diventare freddi o alessitimici.â€

Il padre, atterrito. “Mi vuoi far finire prima di arrivare alle conclusioni?â€

“Sì, papà, scusa.â€

“C’è qualcosa di importante in tutt’altra direzione. Apparentemente meno grave, ma è bene sapere che ci sono persone, diciamo normali, capaci di sentimenti e in grado di esprimere le emozioni, le quali (semplicemente!) “non vogliono dare soddisfazione†a chi ha fatto qualcosa di buono, non vogliono dimostrare ammirazione verso chi è bravo. Questo accade più spesso purtroppo proprio tra amici e conoscenti e chi ha fatto qualcosa di buono si mortifica perché non gli viene riconosciuto il risultato del suo lavoro e del suo impegno. Adesso una domanda: la mamma anche se non ti applaude, ti dice perlomeno OK e siamo certi che ti vuole bene, ma dimmi: chi ignora completamente l’amico che ha realizzato qualcosa di buono secondo te gli vuole bene?â€

“No, Saggina quasi urla, io dico che è cattivo perché l’amico si aspetta un riconoscimento e rimane male se nessuno gli dice niente.â€

“Perciò da queste persone devi stare alla larga. Adesso, figlietta mia, non ho altro da dire, ho finito.†

E Saggina salta al collo del padre mormorando un dolcissimo: “Grazie, papàâ€.

 

 

 

 

 



Saggina e le bugie

 

Saggina è una bambina di 9 anni molto saggia, ha dieci anni e spesso dice cose assennate. Il padre, Karl  Sarc, un botanico tedesco che vive in Italia, la chiama così perché è alta e magra come le graminacee e soprattutto perché  ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee che hanno il  fusto sottile pieno di midollo. Interroga spesso il padre, molto paziente, tranne qualche volta perché Saggina è insistente e poi tende a scoprire gli altarini, senza riguardo per nessuno. Questa mattina ha cominciato così. 

 

-Ho scoperto papà che le bugie le dicono anche gli adulti, insomma proprio chi dice che non si devono dire.

-Certamente piccola, le dicono quasi tutti.

-PAUSA. E tu papà stai in quel “quasiâ€.

-Può darsi, è umano.

-PAUSA E tu sei umano papà. Questa mattina ne hai detta una grossa grossa perché era doppia.

-E cosa avrò detto mai!

-La mamma, vedendo la scatola dei formaggi sul tavolo e non sul frigo, ti ha chiesto quanto formaggio avevi mangiato. Lo sai, siamo preoccupate, ti fa male. 

-E io che ho detto?

-Che non ne avevi mangiato, invece ti avevo visto, tu non te ne sei accorto. Era un bel pezzo, di quello stagionato che ti piace molto e senza tarallini.

-Oddio! Non me ne sono accorto.

-Sì papà, te ne sei accorto. E hai aggiunto un’altra bugia, che avevi preso la scatola per controllare i formaggi, se occorreva comprarne altri, che la scatola si stava svuotando.

-Non c’è nulla da dire figlietta mia: il formaggio mi imbugiardisce.

-Già papà, sei pericolosamente umano. PAUSA Io vorrei sapere una cosa papà: c’è qualche possibilità di capire quando una persona dice bugie? 

-PAUSA

-Papà?!

-Sto pensando. Sì. Giusto l’altro giorno leggevo sul giornale di una intervista. Uno psicologo, consulente della polizia, veniva intervistato, diceva una cosa molto interessante, che le indagini avrebbero svelato i significati di alcuni linguaggi del corpo. Diceva che noi esprimiamo con il volto una cinquantina di modi di sorridere, ciascuno con un particolare messaggio. E aggiungeva che quando il sorriso è sincero coinvolge i muscoli della bocca e quelli degli occhi. Il muscolo zigomatico si contrae e solleva gli angoli della bocca inclinandoli verso l’alto; si contrae anche il muscolo dell'occhio e si formano le “zampe di gallinaâ€: tutto ciò, precisava,  non è presente nel falso sorriso; in più il sorriso falso scompare dal volto in modo troppo improvviso. 

Diceva altro. Le menzogne sarebbero accompagnate da gesti e manipolazioni, perché chi mente, controlla il proprio corpo e gesticola meno del solito, teme insomma di tradirsi con l’emotività, intanto tende a scaricare il nervosismo manipolando oggetti, li schiaccia, li stritola. È tradito anche dai piedi e dalle gambe, spesso  i talloni vengono sollevati e il movimento si trasmette alle gambe e alle cosce. E poi concludeva che       il bugiardo per rendere vera la bugia spiega cose non richieste, amplia il discorso e aggiunge particolari a ciò che dice.

-  Un po’ come hai fatto tu, papà.

-  Sì, un po’ come ho fatto io, è vero.

 

Il botanico ingoia l’amaro della figuraccia con la filglietta. Però, bisogna dirlo, è stato onesto, avrebbe potuto riferire meno a Saggina, che come vediamo è più interessata a  conoscere e sapere che a rimproverare chi lo merita.

 

18.01.23

 

 

=======================================================================================================================

Saggina: chi parla e chi ascolta

Saggina è una bambina molto saggia, ha dieci anni e spesso dice cose assennate. Il padre, Karl  Sarc un botanico tedesco che vive in Italia, 

 

L'altro giorno Saggina ha detto al padre:

Papà, tu mi porti spesso ad ascoltare persone che parlano ad altre, le quali dovrebbero ascoltare ciò che esse dicono. Ed è qui papà che mi sembra strana una cosa: mi sembra che spesso chi parla non si preoccupi se le persone ascoltano. Insomma come se chi parla si accontenti di ascoltare se stesso. Molti addirittura hanno sul tavolo il microfono e non lo usano o non lo sanno usare. Papà a volte non capisco come si comportano i grandi.

Il padre l'ha guardata intensamente e poi:

Figlietta mia, parlare non è soltanto un flusso continuo di parole; è di più, perché è anche controllo di questo flusso. Quando si parla si dovrebbe rispettare chi ascolta e dunque è vero ciò che dici: chi parla dovrebbe preoccuparsi di chi ascolta, non dovrebbe compiacersi della sua voce e di ciò che dice, tantomeno abusare della pazienza dell’altro.  Il controllo è importante anche perché chi parla non dovrebbe lasciarsi coinvolgere emotivamente da ciò che dice, se si lascia coinvolgere perde  di vista la situazione. Spiego meglio: chi parla tiene presente le condizioni dell’altro e cioè innanzitutto la sua possibilità e la sua capacità di ascoltare e di comprendere linguaggio e contenuti, ancora di più, la sua disponibilità ad ascoltare, quindi l’attenzione. Chi parla deve considerare la possibilità che gli schemi di riferimento di chi ascolta possano essere differenti dai suoi. 

Ecco un esempio: Due persone in treno guardano dal finestrino un panorama ed esclamano insieme: Che meraviglia! Così cominciano a parlare, ma ciascuno dei due non capisce ciò che l’altro sta dicendo e nemmeno si accorge di non comprendere. Per l’urgenza di esprimere i loro pensieri, le idee scaturite alla vista di quel panorama, le emozioni che provano, non si sono nemmeno presentati: uno è un pittore, l’altro è un costruttore. Quando tutti e due commentano la bellezza del panorama, sia pure con la stessa frase, ciascuno pensa a cose completamente diverse da quelle dell’altro. 

Analogamente, figlietta cara, ascoltare non è presenza muta, non è passività, è attenzione. Per questo, come il parlante,  chi ascolta dovrebbe preoccuparsi che non ci siano disturbi alla comunicazione; non è impaziente di dire ciò che pensa, di contestare o ribattere, togliere o aggiungere, anche questo sarebbe disturbo alla comunicazione; cerca piuttosto di entrare nella testa dell’altro, e si decentra, esce fuori da sé stesso per accogliere i nuovi contenuti, ideativi ed emotivi, che l’ altro comunica. In seguito, se c’è l’occasione e il bisogno, dirà i suoi punti di vista e sarà lui a parlare e colui che prima parlava si porrà in ascolto. 

Ci sono due grandi categorie, Saggina,  di comunicatori inefficienti: quelli che non sanno ascoltare e coloro che non sanno parlare. Alla lunga accadrà che chi non sa ascoltare finirà che  non saprà nemmeno parlare e chi non sa parlare finirà che non saprà nemmeno ascoltare.

Il discorso, figlietta cara, si dilata e dovrebbe essere approfondito. La situazione più normale per una comunicazione efficace ed efficiente non è il monologo ma è il dialogo. Il dialogo è scambio e lo scambio è un bisogno di tutti gli esseri viventi, ovvio che per l’uomo è uno dei bisogni primari. Tuttavia il monologo è utile, ma chi lo gestisce dimentica a quanto pare i bisogni e i desideri di chi ascolta e  molto spesso si comporta in modo assurdo, addirittura  contro i suoi stessi interessi, come dicevi tu, e non gli passa per la testa se chi ascolta è in grado si ascoltare, in tutti i sensi: orecchio, aspettative, schemi di riferimento.

Credo che si possa chiudere il discorso così:

CHI PARLA MOLTO FINIRA' PER ASCOLTARE SOLTANTO SE STESSO. E CHI NON FA CHE ASCOLTARE FINIRA' PER PARLARE SOLTANTO A SE STESSO

 

06.05.22 maurimaz

 

 

 

============================================================================

============================================================================

 

Saggina e le frasi fatte

 

 

E l’altro giorno Saggina ha chiesto al padre: Papà, perché molte persone, quando si salutano, dicono “Ci vediamoâ€, pur sapendo che non si incontreranno mai più?

 

Il padre, botanico, si è grattata la testa: Vediamo un po’, figlietta mia.  Poi dopo un poco ha comciato:

 

Qualche giorno fa, in uno dei miei  brevi viaggi, ero in una città affatto sconosciuta e in un momento di ozio. Mi divertiva la consapevolezza che tutto quello che avrei visto sarebbe stato davanti ai miei occhi una volta sola: tutto sarebbe esistito solo nella frazione di secondo in cui rubava la mia attenzione. Non c’era alcuna probabilità che avrei rivisto quella strada, quel palazzo, quell'edicola. Provavo la sensazione stordente del fugace, del contingente, dell’effimero: lasciarsi rapire da una prospettiva, da uno scorcio, da un campanile, da una vetrina; dai volti, dalle sillabe afferrate al volo e che hanno accenti, inflessioni del tutto nuove. Quella città l’avrei dimenticata, non sarebbe più esistita. 

Attraversai la strada tagliando il traffico e qualcosa guastò la mia euforia. Era qualcosa di familiare che mi veniva incontro da luoghi remoti della memoria: un tutt’uno di occhi sopracciglia naso e fronte. Man mano che il volto si avvicinava, si condensava su quegli occhi un aggrottare di sopracciglia: era evi­dente che gli facevo lo stesso effetto perché quegli occhi mi fissavano.

“Rubini!†esclamai nello stesso istante in cui lui pronunciava il mio nome ed eravamo l’uno di fronte all’altro. Tutti i miei pensieri svanirono di colpo, proprio come gli oggetti che avevo percepito fino a quel momento: curioso destino che coinvolgeva gli eventi e le meditazioni su quegli stessi eventi. 

“Come mai qui?† 

“Come mai tu? Questa è la mia città!â€.

Rubini era un compagno di liceo vivo nella memoria insieme agli altri della classe. Non ci vedevamo da più di trent’ anni.

“Ti ho riconosciuto subito!â€

“Anch' io! A parte i colori non sei cambiatoâ€

“Cosa fai, come stai?â€

“Vivo qui da un pezzo, venticinque anni, credo. Ho uno studio legale proprio qui dietro. E tu …..…†

Il dialogo terminò più o meno di colpo. Con una caduta repentina della tensione che ci aveva portato inizialmente addirittura all'abbraccio. Ci scambiammo poche informazioni sulle nostre vite e su quelle degli altri compagni dei quali tutti e due sapevamo pochissimo, quasi niente. Quando gli proposi di prendere un aperitivo­, e lui rispose che non poteva trattenersi neppure un secondo per un affare urgente, ebbi la certezza che sarebbe svanito come era apparso. Rappresentavamo una fase della nostra vita, qual è l’adolescenza ricca di scoperte. Per questo l’abbraccio iniziale. Poi una nuova qualità del ricordo, dovuta al fatto che anche nella stessa classe eravamo distanti. Così lui disse la frase che non doveva dire. Quando gli tesi la mano (tutti e due evitammo con “naturalezza" l'abbraccio), disse:  â€œCi vediamoâ€.

Questa frase occupò tutto il resto della mia passeggiata.

Il problema era: come si può dire una frase così in un’occasione del genere. Rubini sapeva che quasi sicuramente non ci saremmo incontrati più. Era un suo modo di dire? No, questa spiegazio­ne non mi soddisfaceva. Decisi di  cercare l’origine di questa modalità di saluto.

Ipotizzai che all’origine avesse il significato di un augurio. Due amici o compagni di un tempo che si augurano di incontrarsi di nuovo. Avevo l’impressione invece che la frase di Rubini contenesse un significato opposto.

Quel semplice “ci vediamoâ€, poteva essere cortesia? Cortesia autentica sarebbe stata una frase come: “Mi ha fatto piacere vederti. So che è improbabile un altro nostro incontro perciò ti auguro buona fortunaâ€. Questa può essere considerata una frase cortese convincente. Gli avrei augurato anch’io buona fortuna. 

No, conclusi, era un intercalare, buffo. L’intercalare è tipico dell'impaccio. Rubini impacciato! Lui che nel mio ricordo apparteneva alla categoria dei compagni che si davano da fare e ne avevano le possibilità.

La domanda adesso era: perché ad alcune persone sembra difficile affrontare e risolvere un problema in fondo così semplice, quello di accomiatarsi definitivamente da una persona? È veramente così arduo dire una frase come quella che augura buona fortuna? È il definitivo che fa paura? Se è così, si comprende: dal definitivo si fugge, ma ciò significa incapacità di affrontare problemi relazionali di primo livello. 

Tutte ipotesi, da verificare naturalmente. Quanto a Rubini, lui probabilmente si era espresso con una frase all’apparenza paradossale, ma di fatto in due secondi mi aveva detto, magari senza una piena consapevolezza: “Non ti dico addio e buona fortuna perché non ne sono capace, e poi non mi importa gran che, perciò ti mando a quel paese facendoti credere che mi piacerebbe vedertiâ€. 

Cara Saggina mia, in molte persone c’è in fondo la solita stupida sottovalutazione dell'altro, che come un boomerang torna al mittente e lo  rende ridicolo.

 

30.04.2021

L'utilizzo degli scritti e delle immagini di questo sito WEB è libero e gratuito.

Si rilascia l'autorizzazione per eventuali usi ma si fa obbligo, senza alcun compenso, di indicare nome
e cognome degli autori. ( Art. 10 DLGS 154/97 )