RACCONTI D'AMORE di Maurizio Mazzotta

 

 

 

 

 

 

 Lezione d’amore

 

coccinelle 1

 

Il nonno rovistava tra le carte di un cassetto e come gli capitò in mano la foto sbiadita di Eloisa, prima ancora di decidere se coinvolgere il nipote e trasportarlo con sé nella marea montante, lo chiamò con l'impulso che ormai controllava sempre meno, pur rendendosene conto. Teneva tra le dita il cartoncino della foto­grafia portandolo delicatamente alla luce e nel suo richiamo, nel pronunciare il nome del nipote, proprio dentro le sillabe c'era l'invito, la condivisione di un segreto, il bisogno di passargli un'emozione sepolta e affiorata, di raccontargli qualcosa di assai importante della sua vita remota.

Giovanni intuì nella voce che lo chiamava l'esistenza dello straordinario e quando si voltò verso il nonno e scoprì le linee di quel volto e i movimenti i cui significati aveva appreso a distinguere, fu certo che in quel richiamo c'era tutta la qualità del loro rapporto. Sembrava un coetaneo, un ragazzo di diciassette anni, quanti ne aveva quell’estate Giovanni, in realtà era anche un suo compagno, un amico, ma rimaneva un vecchio con una storia immensa, ed era un vecchio che lo amava come fosse cosa sua, era il nonno che gli si offriva interamente senza riserve e gli insegnava un modo di essere, uno stile di vita. Giovanni ebbe la prima profonda consapevolezza della forza e del signifi­cato del loro stare insieme. 

A vent'anni il nonno era a Roma. Era fuggito da Lecce per una ballerina deliziosa anticipando il trasferimento nella capitale per studiare giurisprudenza e per imparare a dipingere. Era la fine del secolo e Roma era splendida. Gliel'aveva detto più volte: che Roma era splendida, che lui imparava a dipingere e frequentava i teatri, che quegli anni lanciavano segni inconfondibili di una nuova epoca, aperta a tutto campo verso il futuro. L'Italia tutta cresceva e si beava della sua crescita: a piazza Colonna file di landò facevano capolinea per far scendere chi voleva gustare le "violette candite" della pasticceria Ferraioli e chi preferiva il vermut del caffè Cillario. 

 

 

cavalli 1

Il vecchio cominciò il racconto di Eloisa in tutt'altro modo. Si sedette dietro la scrivania. Prima però gli aveva dato la foto­grafia, dicendo: "era un'attrice e una modella". Giovanni era abituato anche a quel tipo di immagini; notò subito il volto della donna: delicato e intenso e alle prime frasi si accorse dal tono, dallo sguardo tra il mali­zioso e il sognante, che lo stava introducendo nei paragrafi più intimi della sua vita. Il linguaggio e i contenuti si imposero perché profondamente diversi dai loro discorsi di sem­pre, che avevano affrontato tutto, tranne l'eros a quel livello che si intuiva. Giovanni oscillava tra l'ovvio e il meraviglioso, il sorprendente. Ovvio perché dal nonno c'era da aspettarsi di tutto, e questo gli dava sicurezza. Gli dava sicurezza l'ovvietà della continua sorpresa: insomma si sarebbe stupito se il nonno non lo avesse più meravigliato. Meraviglia e sorpresa tuttavia, quasi un prodigio perché il nonno alla sua età parlava di quelle cose, perché ne parlava a lui, nipote diciassettenne, perché era la prima volta che un adulto gli parlava di sesso a quel modo, di sensazioni tra il personale e il poetico, il vissuto e il sognato e quasi che il sogno fosse quello di un adolescente già carico di saggezza, che segna un tracciato da percorrere, una via che il compagno più esperto, pronto a ripercorrerla, spiega all'amico più giovane.

 

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Diceva: - L'attrazione tra i corpi coinvolge tutti i sensi dell'uomo e della donna. Non fermarti alla linea e alla curva, rallenta il tuo impeto se ad attrarti è la delicatezza del viso, o il morbido evolversi del seno, dei fianchi, delle natiche. La donna non è una statua. Scopri il suo gesto: come solleva il capo, o accosta le dita ai suoi capelli, come sottolinea col movimento della testa lo sguardo che ti invia; o come si immerge nello spazio senza invaderlo, la discrezione con cui lo utilizza. La vista è il primo senso, ovviamente, che impegni nella ricerca della tua donna. Io l'ho educato questo senso negli atelier dei miei maestri, e ho imparato a inseguire il gesto e il suo armo­nizzarsi con la persona che lo esprimeva. Ho appreso poi con Eloisa che i sensi coinvolti e da coinvolgere sono tutti perché l'attrazione sia una spinta senza riserve, un bisogno totale dell'incontro, dell'adesione, della fusione. Così inseguo (disse proprio: "inseguo" al presente e Giovanni lo annotò) la mia donna, la donna, con l'udito. Ti capiterà, io non te lo auguro, di deluderti profondamente al suono della voce di una donna che ammiri, che hai ammirato per la sua bellezza. Sembra scontato il discorso sulla voce armoniosa e forse lo è, ma l'armonia dei suoni si esprime anche col passo, col respiro sommesso, quando la tua amante ti dorme tra le braccia. Ed è allora forse che hai la misura della forza che ti attrae verso di lei. Qui è una prova, ed è l'odorato che si presta, anche se lo hai già esercitato con incoscienza, perché dopo la vista e l'udito sei ad un livello di contatto così intimo che già sei coinvolto e le tue facoltà di osservazione sono offuscate e compromesse. Tatto, gusto e odorato: la donna è la tua amante, e queste tre vie di percezione ti mandano messaggi forti e così diretti a stimola­re altre sensazioni, a svegliare altre zone del tuo corpo e a metterle in moto che tu non sei più in grado di sorvegliare la qualità di quelle percezioni (tutto quello che diceva era nel gioco della malizia e nella serietà dell'insegnamento; non calca­va su particolari espressioni. Anche questo Giovanni annotava nella sua memoria). Ora al risveglio, il mattino, potresti avere una sgradita sorpresa: l'alito di sonno della tua amica ti di­sturba profondamente. O altrimenti non sai che hai tra le braccia colei che hai sempre cercato. Non lo sai perché non gli dai valore, ti sembra naturale e non ne hai coscienza. Insomma potre­sti considerare il risultato di una prova sicura e invece sei nella più totale incoscienza. -

 Il nonno fece una lunga pausa durante la quale tese la mano per riprendere la foto di Eloisa; poi, dopo averla guardata a lungo, riprese:

- Prima di Eloisa i miei incontri erano imperfetti. C'era sempre qualcosa che non andava. Persino il tatto, che apparentemente è il più volgare dei sensi, a volte veniva disturbato da una pelu­ria fuori posto. Non che il mio impeto venisse frenato a quei tempi, ma ero disturbato nel mio bisogno di totale adesione. E continuavo a cercare. A quell'età la ricerca è a ... tentoni. (Qui si compiacque della battuta). Ebbi esperienza della qualità dell'eros con lei: la mattina quando scoprì che il suo alito era letteralmente per me come un bouquet di rose. Stai attento Gio­vanni! Stiamo parlando di eros, di quell'aspetto dell'amore che riconduciamo ai corpi, che forse si esaurisce, ma che è vitale, entusiasma e completa il rapporto, anche quello che hai cercato attraverso contatti più sublimi. -

 Gli occhi del nonno si erano aperti quasi fosse davanti a un panorama di una vastità sconcertante e lui fosse ansioso di impadronirsene. Descrisse Eloisa come donna, come attrice. Sfiorò daccapo una descrizione del suo corpo e lo sguardo tornò una striscia sottile percorsa da un brivido. 

 

da Maurizio Mazzotta Le sue dita come stecchi di mandorlo - essereuomo, 2019

ebook € 3,49 - in Amazon, Youcanprint e altri megastore

 

24.05.2020

 

 

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 Il ritorno della strega - Un amore svanito - Il contatto - Il professore in gita scolastica - Fine di una storia - Eutanasia - L'innamoramento -

L'Italicus e il cavatappi - Magia della notte nel vigneto - Il luogo del sogno è una... - Narrare se stessi - La sveglia sul comodino - La strega

 

 

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Strega su scopa 2

 

  

Il ritorno della strega

La strega suggerisce strategie di conquista in amore

 

Si alzò e aprì la finestra. Il freddo stuzzicava, la giornata sarebbe stata  meravigliosa. Si compiacque, ma richiuse subito. Entrò nel bagno e si lasciò distrarre dai suoi stessi gesti, dallo scrosciare dell’acqua, dalle immagini nello specchio. Non si accorse del silenzio innaturale che avvolgeva il piccolo appartamento come un fluido denso che immobilizzava gli oggetti nelle stanze.

Ora però lo avverte. Quando esce dal bagno blocca il piede sul primo gradino che porta giù perché intuisce che c’è qualcosa di strano, più precisamente un’ incongruenza: questa atmosfera che percepisce distintamente non si addice a una mattina di sole, in cui persino il caffè non gli ha proibito di indugiare nel bagno - in genere l’urgenza della nera tazzina era così forte che faceva solo la pipì e rimandava le abluzioni a dopo -; questa atmosfera è adatta di più a ore assai avanzate della notte, quando il silenzio di fuori si centuplica dentro. Sole, luce, frastuono di Porta Portese. Cos’è dunque questa stagnazione che blocca ogni cosa, persino il suo piede sul gradino?

Prende a muoversi assecondando, enfatizzando le sue sensazioni; scende le scale e si aggrappa alla ringhiera per forzare la resistenza dell’aria e solo quando arriva all’ultimo gradino capisce che è LEI. Sempre imprevedibile, inattesa, inopportuna. Come al solito nel salotto sul divano cura i suoi piedi.

- Vuoi smetterla di venire qui a fare le pulizie personali?

- Ma se sei contento di vedermi! -

- No, non è vero.-

- Oh è vero è vero!-

Le gambe della strega Giovanni che aveva iniziato spavaldo e giocoso è colto da meditazione improvvisa.

- Nella tua preistoria, comincia la strega, qualcuno ti ha insegnato i sogni e le avventure; hai imparato a costruire. Ma nella preistoria  ti sei anche aggirato per le stanze della tua casa, dove i tuoi genitori sono state presenze opprimenti, radici dell’ansia e della paura dello stare insieme. Per questo sono qua io -. Riprende a studiare i suoi piedi.

- Perché...queste avverse tensioni, spiegami, perché sono così...-

La strega ride divertita. Ha deciso per l’unghia dell’alluce destro e  muove la gamba piegata. Come al solito è senza mutande e la gonna già corta scivola più indietro.

- Ereditarietà o ambiente. È una vecchia questione. Sapevo che mi avresti rivolto le solite stupide domande e sono venuta ugualmente; le trovo divertenti. L'uomo è spinto da un bisogno, un solo bisogno che lo invade, lo pervade, lo ottunde. Lo ingentilisce definendolo a volte: di realizzazione. Realizzazione intellettiva, anche affettiva. In realtà è bisogno di potere, di dominio sui suoi simili. Ma nei rari momenti in cui questo bisogno si attenua, quasi se ne vergogna considerando l’universo mondo, e si pone e pone domande di varia natura sulle origini, sul futuro, sulla sua essenza e, travalicando se stesso, sull’umanità. Sono domande che stanno sulla luna. Rimani nella concretezza dei tuoi bisogni poveri. Io posso farti diventare preside, provveditore, ministro della pubblica istruzione, primo ministro; posso farti avere tutte le donne che vuoi, per  stordirle con la tua pelvi, il tuo osso pubico, col tuo... come si chiama...

Emette brevi getti d’aria dalle graziose narici per simulare un ridere forzato, poi riprende senza guardarlo, mentre lui invece sì la guarda, come si guarda una donna nuda sulle pagine interne di una rivista per sol- Sei al colmo di nuovi allenamenti. Nuovi anche per gli aspetti imprevedibili che una partner al primo incontro elargisce: i gesti quando si spoglia, la biancheria intima che indossa, le parole che dice, il suo tono di voce, le iniziative che prende o che subisce, le sue reazioni, intraprendenze timori difese da smantellare. Tuttavia stai sprecando occasioni, dovresti allargare il campo di indagine, andare più nel profondo per comprendere la partner. Intuisci ciò che occorre per attrarre le femmine nella mansarda e portarle al massimo dell'eccitazione, ma sei troppo concentrato su di te per capire come accade che una donna, pure capace di orgasmo, non vi pervenga anche se quello si mantiene ed è gover­nato da tecnica sapiente. Stai rischiando di perderti nei labi­rinti del paradosso. La donna-oggetto non può godere. Per definizione… Lo vuoi capire?

Adesso ha alzato la testa e lo guarda. Perché sta per ripetere delle frasi che lui ha letto e lo hanno interessato.

- “ Nel coito la femmina che non sia eccitata in forte misura dagli aspetti psicologici del rapporto trova a volte che alcuni degli adattamenti cui è costretta interrompono lo svolgersi uniforme della sua reazione erotica ed ella viene per conseguenza ritarda­ta nel raggiungimento dell'orgasmo o completamente impedita a raggiungerlo “.

La strega prende la pietra per ammorbidire i calli dei talloni.

- Hai letto e leggi di sessuologia. L’ indagine sull'attività sessuale dei maschi e delle femmine ti consente annotazioni e ti permette di produrre mutamenti significativi. Stai attento però a frasi come questa: "...che non sia eccitata in forte misura dagli aspetti psicolo­gici del rapporto...". Marco, inventa la strategia del come se, come se fossi perdutamente innamorato. Nuova per te, che sei sempre stato noiosamente sincero. Completa la tua trasformazione in un Don Juan, el burlador l'ingannatore il seduttore, che non teme il convidado de piedra, non ha paura che una statua renda giustizia alle sue vittime e lo condanni trasci­nandolo all'inferno; la scienza non si trattiene coi timori del castigo. Fai nuove vittime, Marco! -

- Quello che dici è mostruoso... non voglio emulare Don Juan...-

- Secondo te è meno grave aver tenuto d’occhio la sveglia posta strategicamente sul comodino per verificare la durata della durezza? Mentre scopavi…-

Marco ammutolisce e la strega riprende i suoi piedi. L’atmosfera torna pesante.

- Vai, vai in cucina a farti il caffè. -

 

Strega che balla 

15.10.2016 

 



 

 

 

Perdi-foto 3                              Un amore svanito                                                             

 

  

 

Scendeva in automobile verso Sud-Est e ogni momento era un attimo nuovo, originale: cambiava il paesaggio, si arricchiva di parti­colari sempre significativi, cambiava la tensione verso Maria, si nutriva di sfumature di emozioni mutevoli. Sarebbe stata ad attenderlo all'altezza di Brindisi. Su quella stessa strada. Si trattava di percorrere uno spazio, un tempo. Al limite di spazio e tempo ci sarebbe stata lei.

 

Non era fermo in un punto tra Roma-Lecce o Lecce-Roma, non come le altre volte, non come sempre. Volava su un'onda che si gonfia­va, cresceva, approssimandosi alla riva. La riva gli andava incontro con la bruma leggera del mattino, che si condensava, si scioglieva per tornare a concretizzarsi di nuovo in certezze dal sapore di matasse di zucchero filato. Il pensiero era dolce. Aveva detto: dimmi l'ora, ti verrò incontro. Le aveva indicato la prima ora possibile; era partito all'alba. Tutte le espressioni del volto di Maria erano nella sua mente distinte. Aveva cercato di cancellarle nei mesi appena trascorsi; sembravano essersi disperse. In pochi giorni erano affiorate e si erano imposte. Ricordava il comparire della malizia acerba nello sguardo, il pensieroso aggrottare delle sopracciglia, lo splendore dei denti che si aprivano ai sorrisi. Gli slanci trattenuti dall'incedere garbato. L'impeto dei capelli che scompigliavano il contorno del suo volto restituendogli il fascino della giovinezza che qualche ruga della fronte tentava di spegnere.

 

Il sole della primavera splendeva nei cieli di Puglia e sotto vi erano campi di grano, ulivi, vigneti, mari di Puglia. La luce forte faceva bianchi i vigneti. I tronchi, i rami antichi degli ulivi erano avvolti da una nebbia luminosa e la chioma sospesa si guarniva di allegria. Assai strano per gli ulivi.

 

Poco dopo le dieci, e il paesaggio si aprì come un ventaglio: con un bordo verdesmeraldo schizzato di fiocchi di spuma e fasce di cielo che svanivano in colori via via più tenui. L'Adriatico era un segnale. BRINDISI BRINDISI BRINDISI. Le prime indicazioni fuggivano e Giovanni era contento che rimanessero indietro.

 

Il suo sguardo si spingeva lontano oltre il possibile e vide un punto, un'automobile, pochi secondi, la riconobbe.

 

Anche lei. Prima ancora che Giovanni fermasse del tutto la sua corsa, Maria apriva lo sportello e scendeva. Si abbracciarono e spazio e tempo trasalirono, si condensarono in un morbido profu­mo.

 

Iniziò la Pasqua di Giovanni: resurrezione nel Salento. Dimenticò le brutte cose, le paure, le ansie di Roma. Lei gli stava tessen­do attorno una tela robusta e soffice, fragrante di Jonio. Frasi convinte e convincenti, sin dalle telefonate dopo mesi che non si era fatta sentire, dopo mesi dalla scomparsa; e nei loro incontri ancora parole importanti e gesti e offerte, autentici impulsi. Giovanni era vigile; ma una forza che non riusciva a controllare voleva Maria punto fermo, àncora da gettare nel mare poco tran­quillo della sua affettività.

 

Pensò-non pensò mai al sesso come in quei giorni. Ritornò a Nuvoli, tra gli amici, perché c'era lei. Poco più di dieci anni per capire che doveva tornare.

 

Nella casa di campagna offrì ospitalità  più di una volta. Agli amici piaceva. L'ultima sera disse a Maria: - Andiamo. Ti porto a vedere il toro.-

 

- Non me ne ero accorta. C'è una luna grandissima. -, commentò lei trattenendo in alto lo sguardo.

 

- Qui c'è una speciale lente nel cielo che fa apparire la luna sempre così. Grande -.

 

Lei in risposta gli strinse le dita conti­nuando a guardare nel cielo.

 

Si allontanavano dagli amici; varcavano un confine netto tra chiasso e silenzio, luce e ombra, presente e passato, realtà e ricordi. Sogni. Giovanni ebbe un brivido che trasmise alle dita di lei. Maria intuì qualcosa, restò discreta, intimidita.

 

- Luna e toro...sai come li vedo?...Attenta qui il sentiero sembra finire. Invece cambia colore, la luna non riesce a illumi­narlo.-

 

- Infatti. Non vedo proprio niente. Non so dove sto mettendo i piedi.-

 

- Seguimi. Per ora seguimi, poi ti abituerai. Guarda. Laggiù il sentiero torna di nuovo bianco.-

 

- Stavi dicendo qualcosa...della luna e del toro...-

 

- Che li vedo entrambi sulle spalle o sulla testa di un vecchio.-

 

- Di un vecchio?-

 

- Ho pensato toro e luna e ho immaginato un vecchio con la luna sulle spalle. Nel bianco della luna si profilava la massa scura del toro.-

 

- Che strano e perché?-

 

- Non so. Forse perché ho visto un albero basso, un po' storto, curvo e mi sono raffigurato un vecchio.-

 

Giovanni mentiva. Aveva pensato al nonno. Mentre mentiva si rendeva conto che non aveva mai parlato a nessu­no del nonno. Nemmeno alla moglie. Se non assai vagamente. Per fortuna, gli scappò di pensare. Era il caso di parlare? ATTENDERE PREGO! In cuor suo si augurava di poter raccontare del nonno a Maria.

 

- Ecco la stalla.-

 

- Non è pericolso?-

 

- No. Seguimi.-

 

Varcarono la porta della stalla che conduceva direttamente dal toro. Avevano superato dall'esterno la  vaccheria.

 

- Senti questo rumore? chiese mentre lei si sforzava di vedere nel buio che era tornato questa volta a inquietarla sul serio. Ascolta, questo rumore è il respiro del toro.-

 

- Sembra un treno.-

 

Le vacanze di Pasqua passarono come un sospiro, e a Roma riprese la scuola.

 

I primi giorni era ogni sera al telefono. Maria lo chiamava e gli ripeteva che sarebbe partita, che stava per partire. Era questio­ne di giorni. Poi il telefono tacque. E fu lui a cercarla, due volte, senza trovarla. La terza rispose la madre.  E' partita, disse. Stamattina. Nient'altro. La madre lo metteva a disagio. Pensò che sarebbe dovuta arrivare. Pensò a un incidente. E come dirlo alla madre? Telefonò una quarta volta. E la madre gelida:  E' arrivata, arrivata. Dove doveva arrivare.

 

Non chiamò più. Non sapeva chi chiamare.  Aspettò. L'attesa fu uno strazio lungo, una lenta contorsione di visceri. Un dolore fisico. Erano supposizioni. Non c'è niente che eguagli i supplizi del voler sapere quando non si può sapere. Il dolore della perdi­ta di Maria non lo distruggeva quanto il non sapere se la stava perdendo oppure no. I parenti l'hanno sopraffatta?  Come può una donna, non una bambina, lasciarsi sopraffare? Gio­vanni non aveva altra possibilità per non soccombere se non quella di dissolvere Maria. Trovare l'energia necessaria dalla rabbia che gli illuminava la realtà mentre gli abbuiava il cuore. E’ duro girare l'interruttore, spegnere la luce sull'evento Maria, che aveva cominciato a significare troppo.

 

Trascorsero dieci giorni dal giorno del silenzio. A mezzanotte squillò il telefono. Sentì che era lei che veniva. Con cattive notizie. Il cuore forte fabbricò svelto tutta la rabbia di questo mondo. Ci fu ugualmente una sorpresa. Si era convinto che lei era rimasta a Lecce. Dove stai?  A Brescia. Fu altro strappo nell'intimo chissà perché, dato che non cambiava nulla. Lei stava ripetendo: sono a Brescia. Da mia sorella. Da una settimana. Non credo che ti chiamerò più. Volevo dirti questo. E subito interruppe la comunicazione. Giovanni immaginò che lei schiacciasse il tasto con l'indice della mano sinistra e poggiasse la cornetta con cura sopra l'apparecchio tenendola con tutte e due le mani. A quel punto si sbrigò ad allontanare il telefono e a chiudere quella storia per sempre. Supino, lasciò che il buio di sempre ripren­desse a opprimerlo. Maria si allontanava. Piccola, piccola. Fino a annullarsi.

 

 26.03.16

 

 

 



 

IL CONTATTO           contattole regole del contatto nell'eros

La malinconia, emanata dall'intimo come una falsa aura romantica compagna di viaggio, gli aveva fatto prevedere un  soggiorno nella terra d’origine reso più infelice dalla concomitanza di Natale e Capodan­no. Dovette ricredersi. Fu assorbito dagli amici dell'adolescenza che sfoggiavano mogli che esibivano figli e conducevano una vita frizzante, varia di eventi piacevoli. Si inserì nelle serate improntate al gioco delle carte e a cene pantagrueliche.

Il professore, al contrario di ciò che aveva previsto, era nella condizione dell'uomo forte, sorretto dal meglio delle sue espe­rienze. Era tornato soltanto per poco tempo. Gli mancava l'ango­scia che si prova alla certezza di dover restare per sempre tra cose che si rifiutano, che non si sono mai accettate. La sensa­zione  di provvisorietà accresceva in lui stranamente un benesse­re di liquido amniotico.

 

Maria aveva un corpo flessuoso e la mente rapida ad afferrare notizie sul maschio estraneo, purché si inserisse nel gruppo, che tranquillizza e legittima ogni interes­samento. Sapeva di Giovanni, prima dell'incontro, molto di più di quanto Giovanni sapesse di lei dopo l'incontro. Sapeva che l'avrebbe conosciuto. Si era costruita un Giovanni che ritrovò perfettamente nella realtà. Dal momento che voleva che i due personaggi coinci­dessero scoprì lo sguardo obiettivamente irresistibile dell'uomo, trasgressivo finanche nella vita, maggiormente affa­scinante perché partito dalla stessa sua terra. Comunista, si diceva, senza tessera: il massimo della violazione di pensiero; separato: quando la contestazione si spinge fino al cielo.

Maria aveva tanti sogni proibiti nella testa, destinati a svanire alla luce dell'alba, e Giovanni era per lei come la notte miste­riosa che risveglia i sogni e per la forza dell'incanto sem­brano realtà, sicché viveva un momento di radiosa eccitazione.

Attorno al tavolo da gioco Giovanni incrociò troppo spesso gli occhi di Maria, che sbatteva un poco le palpebre non per attenua­re, ma per sottolineare lo sguardo che voleva essere monello. Quando gliela avevano presentata aveva notato subito l'espressione vivace e un piccolo mento sfuggente, la magrezza sana di un corpo asciutto. Aveva immaginato sotto il vestito una linea bruna con incavi e lievi ondulazioni, un orizzonte di sessualità.

Lei non fa in tempo a volgere lo sguardo che Giovanni le sorride; incoraggiata continua a guardarlo restituendo il sorriso. Hanno stabilito, muti, un gioco con regole che propongono via via e accet­tano per accordo rapido: la regola è il primo strumento per mantenere il contatto.  Le regole del gioco al quale l'uomo e la donna si esercitano da quando la civiltà ha reso le azioni meno rozze sono, con lievi differenze, frutto del contributo dell'individuo, della sua sensibilità. Come in tutti i giochi la regola è il gioco stesso, e come per tutti i giochi il movente è il contatto.

Le regole sono in successione e rappresentano i momenti del gioco.

Prima regola, di Giovanni: se ci guardiamo per più di una frazione di secondo non si distolgono gli occhi, ma si sostiene un tantino lo sguar­do, poi lasciarsi pure distrarre dalle altre presenze del gruppo.

Seconda regola, di Maria: mi lascio guardare, evitando accuratamente per qualche secondo di intercettare i tuoi occhi.

Terza, sempre di Maria: faccio capire che so di essere osservata vol­gendo lo sguardo un po' più a destra o a sinistra in modo da presentarmi frontalmente, agevolando la contemplazione.      

Quarta, di Giovanni, permette il messaggio implicito più compromettente: se il risultato della contemplazione è gradito, continuare il gioco e renderlo più interessante scambiandosi lo sguardo contemporaneamente, invitandosi a un garbato sorriso con un lievissimo cenno di labbra.

Quinta, di Giovanni, inizia una seconda fase: utilizzare i possibili linguaggi del viso per mostrare disponibilità, per esempio stringere un poco le palpebre, muovere discretamente le labbra, sfiorarsi i capelli e, soprattutto, caricare l'espressione degli occhi di intenzione. I meno raffinati, cara Maria, riducono al minimo la prima fase, e a questo punto esprimono la lingua un po' fuori dalle labbra; pare che altri, addirittura, la facciano serpeggiare, oh volgarità!

I loro sguardi diventarono lampi di intimità. Rivelavano ciò che a parole si diranno più tardi. Erano promesse, tenerezze, emozioni intense, gioie e piaceri. Creavano l'aspetta­tiva, consapevoli che l'aspettativa delusa è il primo grosso colpo che riceve l'amore. 

La serata, concentrato delle migliori lusinghe, terminò con la proposta, eccelsa di entusiasmo, che venne da Maria, di rivedersi la sera successiva in campagna da lei per consumare arrosti cotti alla brace. Giovanni, convinto che quella proposta fosse per lui, ai saluti, in disparte, le chiese: - Potrei avere un' anteprima di campagna? Per esempio vederci nel pomeriggio, e conoscere la tua campagna quando c'è ancora luce. Io ho nel cuore la campagna del Salento.- E con quest'aggiunta, suggerita da un intuito diabolico, andò a segno. Il trasgressivo con le origini sempre vive nel cuore evoca il sublime.

 INS 13.01.16

 



 

 

per Prof in gita 2            Il professore in gita scolastica                                                       

 

Alloggiarono in un buon albergo. I ragazzi erano elettrizzati dal nuovo modo di stare insieme, giorno e notte, lontani dagli am­bienti consueti, sui campi da sci, in aule con le poltrone delle hall e tavoli quadrati col panno verde, che suggerivano il gioco piuttosto che lo studio; le finestre su paesaggi di apertura sconfi­nata.  La sera si salutavano in pigiama, e poi tentavano le sortite dalla propria stanza per sorprendere le compagne che parlottavano sui letti.

Il professore si appagava, di riflesso. Anche per lui la vacanza di lavoro stava diventando un'eccitante esperienza parallela. Immagi­nava se stesso ragazzo e nello stesso tempo viveva in situazione nuova il rapporto con i colleghi. E poi la presenza di Rita, il cui comportamento curiosamente volubile egli aveva finito per accettare.

In viaggio per Moena, in treno, costretti anche a tenere a freno quei diavoli scatenati, avevano trascorso in corridoio parte della notte e dopo le due, quando finalmente la vettura si era acquietata, era riapparsa negli occhi di lei quella serietà carica di messaggi che aveva manifestato altre volte, molto più fugacemente. Lui era rimasto sempre perplesso per questi cambiamenti repentini nello sguardo. In passato altre volte aveva notato tali atteggiamenti: la donna che hai di fronte, e con la quale stai tentando inequivocabili approcci, esprimendo con lo sguardo, all’improvviso, quasi una sofferenza sembra ti voglia comunicare proprio “il suo desiderio”. Che ci sta, insomma! Tanto per essere chiari.

Ma in Rita il mutamento avveniva troppo bruscamente. Ed era proprio il cambiamento repentino che lo portava a trarre delle conclusioni: come se quella espressione mancasse in fondo  proprio di autenticità.

In treno non era accaduto nulla; almeno il professore aveva voluto rimandare una risposta più impegnativa, scomoda da tentare nel corridoio di una vettura ferroviaria piena di colleghi e di alunni senz'altro ancora svegli, e si era limitato a ricambiare quel tipo di sguardo, personalizzandolo con un sorriso delicato. Gli riusciva insopportabile imitarlo pari pari. Mai si sarebbe aspettato la mattina dopo, superati i problemi degli arrivi e delle sistemazioni, di ritrovare una ragazza, con la quale gli sembrava di avere in sospeso qualcosa da approfondire, che si comportava come se non lo conoscesse e non volesse conoscerlo. Dopo un attimo di reale smarrimento, il professore aveva concluso che Rita aveva rinnegato i suoi cedimenti.

La sera di quello stesso giorno, a cena e dopo cena, Rita  tornò, a poco a poco, la ragazza della notte in treno, spigliata con lui fino a rimanere allacciata in balli che si provavano con i ragaz­zi. E il professore si concesse, con prudenza.

L'alternanza, che la prima volta egli aveva spiegato come legittimo ripensamento, una seconda volta gli apparve quantomeno strana; si ripeté per più di tre giorni e arrivò a incuriosirlo e divertirlo. Non si impressionò o sconvolse, non fu vittima dell'umore della ragazza; non si offese,  le dette l'opportunità di esprimersi. Rita fino al quarto giorno, mentre sui campi da sci e durante le lezioni del pomeriggio curava di tenersi più lontana possibile da lui, era all’opposto di sera:   gentile, affettuosa, anche più che affettuosa,

La quarta sera le parlò. Con enfasi studiata. Le chiese aperta­mente se era attratta da lui e che voleva saperlo perché lui era sedotto dal suo comportamento mutevole, da quel continuo acco­starsi e fuggire, prestargli attenzione e ignorarlo. Dal suo rifiuto di dargli certezze.

- Ecco... almeno sapere se... se in queste ore o all'imbrunire quando ti ricordi che esisto, adesso, che stiamo qui, anche tu avverti quello che provo io. -

Erano in fondo al corridoio. Messi a letto i ragazzi dopo cena, avevano preso l'abitudine di sostare per sorvegliare la calma. Erano responsabili di quel piano insieme a un altro collega che divideva la camera con il professore. La camera faceva parte di un appartamento riservato dell'hotel, composto di due stanze separate da una toilette in comune, in una il professore e il suo collega, nell'altra Rita, che la divideva, anche lei purtroppo, con una bambina di sette anni che, eccezione alla regola, apparteneva alla scuola indirettamente, figlia di una bidella che l'aveva affidata a tutti gli insegnanti.

Si accusava stanchezza. Quella sera tutti anticiparono il riposo. Il compagno di stanza del professore era gioviale e crapulone, alto grosso con la pancia, mangiava e tracannava solidi e liquidi, rideva, era sereno; russava già prima di addormentarsi. In fondo al corridoio, nel silenzio prematuro, per questo affida­bile, Rita abbassò la testa e lui scorse appena in tempo sul volto di lei lo sguardo dolorosamente impegnato. Le sollevò il mento.  Si lasciò baciare. Il primo fu timido, al secondo si aggrappò. Il professore restò turbato, non se l'aspettava.

- Permette signorina, che venga nel suo bagno questa notte?-

 Rita si slacciò, scivolò con la mano sulla sua mano e si accostò alla porta della camera. Era un no? Non aveva sorriso alla sua frase? Come era il suo sguardo, offeso o sempre serio? Prima di aprire la porta rispose ai suoi quesiti. Il suo volto era illuminato, la risposta, una, fu chiara e intelligibile. Con lo sguardo ancora sofferente disse sì con la testa e scomparve, chiu­dendosi alle spalle la porta senza scatti neppure lievi di serrature che potessero tradire. Anche questo svanire fu una risposta affermativa. Il professore respirò profondamente.

 Poco dopo mezzanotte l'albergo si inabissò nel sonno. Ogni tanto il collega smetteva di russare e il professore supino a letto tendeva l'orecchio ai respiri, ai rumori inesistenti che gli ordinavano di alzarsi. Finché non sentì grattare il legno della porta che metteva in comunicazione la toilette con la camera di Rita. Il rumore fu lieve, ma distinto. Si sentì chiaramente perché la porta, che dalla stanza del professore immetteva nella stessa toilet­te, lui l'aveva lasciata aperta di proposito. D'accordo! Si alzò.

Da questo momento gli eventi galleggiarono nell’oscurità di un ambiente senza limiti, sospinti dalla presenza di corpi addormen­tati che giacevano al fondo di quell’ immensa bolla di sapone in cui si era trasformato l'albergo.

Si allontanò dalla stanza con movimenti esatti, maestri del silenzio, sorretto dal pensiero che Rita lo aveva chiamato toc­cando la porta, come quando si tira la giacca a qualcuno perché si vuole trattenerlo e il pudore vieta una richiesta esplicita a parole. Attraversò la toilette, aprì lievissimo l'altra porta e scivolò nella camera di Rita. La sagoma della ragazza si impose. Fu lei a prendergli la mano. Oh attimi che si sciolgono in dolce realtà! nell'abbraccio, dove il pigiama e la camicia da notte hanno immensa importanza, per quel tanto di barriera che pongono, che invece sottolinea questi fianchi questo seno. E il profumo! Un respiro proviene da remoti millenni. LUI arriva alle stelle spaccando di gloria l'albergo. Rita lo guida attraverso la stanza, né si può spiegare come questo avvenga in quanto il suo corpo è unito a quello del professore come un nastro adesivo di morbida plastica. Si spiega, si comprende. Per facilitare le cose Rita si è girata continuando ad aderire, di spalle. Lui la circonda con le braccia, le mani premono sul seno e sul ventre, il profumo della nuca è intenso, il corpo di spalle completa quello del professore. Non può fare a meno di spingere il suo membro sulle natiche di lei e lei si concede senza inibizioni. Per una frazione di secondo il professore è sopraffatto dalla sua stessa emozione. Poi sembra facile controllare la tensione: essa nasce, si sviluppa, vive in questa atmosfera. Se LUI esiste, è per questa stanza che fluttua come un magma sordo, dove il rumore si è convertito, ha ceduto alle forme che scivolano. Anche gli oggetti galleggiano. La tensione dei loro corpi si nutre di questo morbido impasto. Oh che il tempo resti o voli! In un soffio sono già sul letto dentro il letto. La mano di lui si riappropria dell'antica sapienza. Sa come fare per ovviare alla lunga camicia, risale tra la pelle calda delle cosce. Selva nera monte di Venere Everest di gioia con un fiume profondo da risalire. Perdìo è vergine! Rita ha sussultato. Desiste un atti­mo, torna a baciarla.

Lo sorprende la pazienza la serenità la sicurezza di quel maglio sornione teso lungo l'addome. È necessario che lei lo tocchi e le trasporta la mano perché lo accarezzi. Rita si ritrae in tempo, come Arianna fuggiva quel mostro. Il professore rimanda, decide per una conoscenza olfattiva. Percorre la pelle nasolingua, sfiora l'interno delle cosce lei invita aprendosi è tempo di provare orsù mano all'aratro per aprire il solco! Giovanni trova la strada in tutta quella verginità... Rita soffoca un gridolino. Tutto è sospeso, anche il respiro: c'è la bambina! La stanza rimane ferma, in ascolto. LUI riprende a muoversi sul corpo di Rita con una calma che stupisce per primo il professore. Una tal vergine doveva capitargli che più vergine non si trova! La bambina lo preoccupa più dell'imene di lei. Riprova. Un mugolio più forte. Di nuovo la stanza si immobilizza. Si meraviglia che riesce a dominare quel serpente di fuoco che forse, impropriamente, sembra interessargli di più di quel corpo di donna. Gonfio quatto astuto, attende. Forza la mano di Rita che cala sull'albero vivo. Stringi, sussurra. Lei chiude le dita: troppo gentile. Stringi, ripete. Lei chiude il pugno, guidata da lui. Stringi. Ti faccio male risponde con le labbra calde nell'orecchio. No. Finalmente stringe. Santa opposizione sacra costrizione di piacere che serri la forza che si espande! L'espansione ha senso se la comprimi. Quanto immenso il piacere del gas racchiuso nella bombola! Vorrebbe riferirle il paragone; gli viene da ridere, la presenza della bambina lo inibisce.

Terzo tentativo. Userà il maglio, si propone. Lei ormai teme il mostro e ha le gambe serrate. No no mi fai troppo male qui non possiamo, domani troveremo il modo, adesso va via, ti prego. A conferma la bambina si muove nel letto e il cuore esce dalla bocca di entram­bi. Rita lo spinge per cacciarlo via e il professore, docile, ubbidi­sce.

 Ripercorse come un'ombra la stanza, il bagno, la sua camera. Come un'ombra si adagiò nel suo letto.  Come fare il giorno dopo!? Non sapeva in quel momento il professore che la vicenda si era esaurita in quella magica bolla di sapone che aveva consentito a LUI di essere splendi­do, riconoscere e salutare, fiero impalato soldato, il corpo di una donna. Aveva pazientato, re o soldato, accettato il rinvio della competizione o riconciliazione che fosse. Gli stava bene dopo tanti mesi di astinenza.

 Il giorno dopo Rita nello splendore della neve si innamorò di un maestro di sci apparso all’improvviso sulle piste: coetaneo, biondo, azzurro, abbronzato. Per renderla radiosa. Tutti se ne accorsero e furono contenti per lei. Lo accettarono. Anche perché il giovane abbandonò le piste, l’albergo e gli impegni per seguirla.

 

 

 INS 15.10.15

 

     

 



 

 

Roma Ostiense-Marconi OK         FINE DI UNA STORIA

 

Viale Marconi trabocca di automobili in ansia per la sirena che arriva e non si sa se autoambulanza pompieri carabinieri polizia, non che cambi molto, urge strada ma quale strada se non ce n’è nemmeno sotto le ruote, pure questa col clacson a chiedere spazio a quella davanti che non può darglielo. Ai lati quelle in sosta paiono sgravate dall’incubo della lotta, ma anch’esse strette pigiate non offrono varchi per salire sul marciapiede: l’autoambulanza è vicina. Luca guarda lo specchio retrovisore mentre l’urlo gli trapana il cranio da un orecchio all’altro e ci gioca dentro. I tentativi per accantonarsi sono deliranti, scatta il rosso si ha diritto a passare ugualmente nelle laterali il traffico si blocca e l’auto di Luca passa insieme ad altre ma vanno avanti per poco, l’autoambulanza riesce a salire sul marciapiede ridiscende trova un provvidenziale insperato corridoio, un’automobile atrocemente cinica le si mette in coda. Si riprende la consueta lentezza.

La gola infuocata non gli da tregua. Prima, distratto dal frastuono esternointerno se ne era scordato,  ma è la gola il suo male come male pure questo viale in perenne esplosione di rumori puzze aria irrespirabile. Solo a notte tarda riacquista l’umanità dispersa.

Nei pressi della Portuense il traffico alleviato dalle diramazioni verso Trastevere comincia a scorrere; la lunga strada permette uno sfogo, serve pure ai rapinatori del vicino ufficio postale e agli scippatori di via Ippolito Nievo.

Si sogna un posto auto. Luca preferisce intrattenersi a scuola al termine delle lezioni per arrivare a casa dopo le due e poter parcheggiare magari a duecento metri da casa. Fortuna sfacciata, trova scalo al lato del portone. Ma l’ascensore è bloccato. Nove piani, con la febbre! Un’eternità. Finalmente a casa serra la porta. Che non entri la follia di fuori, e sbriga le ordinarie banali  faccende.

In cucina, sul tavolo sgombro di bottiglie e barattoli, prima perfettamente allineati, campeggia un tovagliolo celeste sbia­dito, quasi bianco, e un bicchiere a metà di angelu ruju. Nel tovagliolo disteso, proprio alla confluenza delle pieghe, al centro, si annida una capsula di antibiotico.

Fuori, e soltanto fuori, sono le due di pomeriggio di uno splen­dido novembre e la luce accende il bicchiere visto dalla porta di fronte alla finestra. La sommità vuota riceve i riflessi del vino che rimane denso e scuro. Forse, chinandosi fino alla sua altezza, Luca lo vedrebbe  cedere alla luce sagomandosi in un enorme rubi­no.

    Fiacco di febbre. Si stacca con cautela dallo stipite, dove si è appoggiato per esaminare l'effetto, e si avvicina. Si raccoglie un attimo, col capo leggermente piegato sul petto, scioglie le dita intrecciate sul ventre, e prende tra il pollice e l'indice della mano destra la capsula. La pone sulla lingua, leggermente in fuori, e la ingoia con un rapido colpo indietro del capo. Beve l'angelo rosso.

- Haemophilus influeeeenzaeee - intona a bassa voce e si risponde con un canto che vuole essere quello di un coro: - Vaade reeeetroo -.

- Staphilococcus aureus -

- Vaade reeeetroo -.

- Streptococcus viridans -

Va salmodiando per le stanze del piccolo appartamento e con un cenno invita il coro. Dato l'avvio  continua a ripetere in sordina "vaade reeeetroo".

Il coro è sulla scala della mansarda, nell'ingresso. Affacciate alla ringhiera, ammassate, ci sono le donne della sua storia, quelle che ha amato e quelle che ha soltanto scopato, pure quelle che gli ispiravano poesie: compagne, fidanzate,

“ragazze” e ragazzine. La scala è breve, ma lui le vuole tutte ugualmente. Sono sedute, con le gambe penzoloni, naso e occhi incorniciati dai tondini verticali di ferro.

Streptococcus beta-haemoliticus. Diplococcus pneumoniae. Neisseria catarrhalis.

La stanza, di solito tetra, ha macchie di colori vivaci: ha ordinato a tutte di vestirsi a festa. Il male si scaccia con la gioia e l'allegria, con lo sguardo malizioso delle trentenni e i corpi lievitanti delle adolescenti del tempo della scuola media.

Escherichia coli. Bordetella pertussis. Proteus vulgaris. Il coro deciso s'innalza.  

Ancora più forte, siate determinate, ogni vostra nota uccide il male ovunque s'annidi: salmonella typhi, salmonella paratyphi, salmonella typhi murium.

Tenta la porta d'ingresso, tirando a sé la maniglia, per assicu­rarsi che sia chiusa. Esamina la stanza attentamente: gli oggetti sono tranquilli, può  fidarsi. La città non potrebbe  penetrare  nel suo intimo.

Sale i gradini, come un vecchio, uno per volta, la mano sotto il maglione a tastare la gola che scotta.

Risorgere, risuscitare, rivivere. Si è definitivamente liberato dai vincoli della moglie e ha deciso. Al volante della sua auto. Ricostruire la sua abitazione. Ricrearsi. Ristorarsi con squillo gentili. Ripristinare sane vecchie abitudini. Risorgere, risuscitare, rivivere.

Ma ora si è ammalato e telefona all'amico medico.

- Ho preso l'amplital, antibiotico ad ampio spettro. Così è scritto. Sei d'accordo? -

Luca ripone la cornetta e guarda la sedia per comodino, la stanza senza ornamenti, senza carattere e personalità. Senza difese. Affiora tutto questo alla coscienza e osservare intorno fa male.

Dopo i primi giorni di euforia per la libertà riconquistata, è stato aggredito dall'IDEA. Dapprima  brevi, proditorie incursioni: lo ha punzecchiato al fianco, caricando d'ansia la percezione della casa deserta, colpendolo sul tema della solitudine. Una mattina l'IDEA ha sferrato l'attacco frontale e gettato sul suo petto il peso della parola  fallimento.

 

04.04.15 

 



 

 

Il racconto che ha ispirato il cortometraggio Il viaggio del rimorso

E la contaminazione con la poesia Il corvo di E. A. Poe

 

 

Eutanasia

 

Luce a grappoli su viale Ippocrate. Strada che ha amici e sambu­che d'osteria, sirene spiegate di pompieri, pensioni trattorie bar. Piogge acqua sole; inverni e primavere, sempre luce in cima alla salita.

Erano seduti al bar e Lucia parlava. Giovanni assaporava la granita di caffé.

La ragazza ebbe un movimento brusco, per poco non rovesciava la tazzina:

- Tu non mi ascolti.-

- È vero! -

Era sul punto di arrabbiarsi. Si limitò a dargli un pizzico sul braccio, come un aculeo.

Scrivevano entrambi poesie. Si imponevano regole per contenere la forza dell'espressione che sarebbe apparsa più esplosiva, dicevano. Modificare parole strutture e ritmi.

Tòrna l'èco del tu nòme/ tra brìciole di fùmo/ Ho sorbìto de(i) bocciòli/ la bòcca co(i) tuo/i) séni.

Dove l'alternanza di ottonari e settenari deragliava il ritmo e la mutilazione di aggettivi e preposizioni appariva crudeltà superflua. Invece bastava lasciarsi andare, abituarsi, cantare, e i quattro versi risultavano perfetti. Commentava Lucia dopo aver lavorato insieme a produrli in una pausa dell'amore. Giovanni non poteva non riconoscere in lei la realizzazione dei suoi sogni.

Insèguo na farfàlla/ e ma-i/ la prenderò/ perché sto fermo. Aper­tura di settenario, quindi una scala: ternario, quaternario, quinario. Se mi dici di rimanere resto. Un'altra settimana. Dovremmo stare insieme giorno e notte, vorrei vederti quando scrivi. Ti si sciolgono gli occhi come dopo l'amore?

 

La strada si attorcigliava alla collina e si lanciava nella pianura per raggomitolarsi di nuovo. Sembrava di correre in un labirinto senza uscita che la luce dei fari apriva davanti, mentre la notte nascosta dopo la curva tornava a inghiottire alle spalle. Fuggivano quel buio, che era sempre dietro: Giovanni guardava inquieto lo specchio retrovisore. Guarda quell’ albero sembra fuggire! Solleva le sue radici come una vecchia la lunga gonna e fugge veloce in punta di piedi. Se spegni i fari vedi le stelle.

Il lago era un grosso felino accovacciato ai piedi della collina. La notte buia sopra Bracciano accendeva di tanto in tanto sulla sua superficie riflessi di pallide luci, e il lago sembrava spiarli, attendere un momento propizio. Forse vuole inghiottirci. Era emozionata e continuava a immaginare. Tutto accadrebbe in silenzio. Si gonfia, e di scatto fa un salto sopra di noi, ci porta con sé e torna a fingere il sonno. E noi ora laggiù nel profondo, immersi nella notte. Anche ora siamo nella notte. Sarebbe la stessa cosa.

    L'aveva  conosciuta a luglio del quarto anno di Lettere, l'ulti­mo esame: Letteratura latina.

Uscì dalla stanza facendosi largo tra gli studenti assiepati dietro la porta, e tutti a chiedergli come era andato e cosa gli avevano chiesto. Quando si liberò dalle loro ansie, si sedette nel corridoio, in fondo, per assaporare, in quello stesso ambiente, la gioia dell'ultimo esame, e chiese una sigaretta a una ragazza che era uscita da una porta, di fronte, e se ne stava accendendo una.

- Non ti importa nulla, ma io devo dirlo: ho chiuso, ho finito, sono... sono vuoto, leggero. Niente più esami. Hai presente una rondine? È rimasta la tesi che mi diverte.-

- Bene. Sono contenta per te. Conosco questa gioia. Allora sei tu che devi offrirmi il caffé che avevo intenzione di prendere.-

Era troppo preso dall'emozione. Gli succedeva di rado. Gli studi universitari erano stati il suo eterno conflitto di quegli anni. Si accorse appena del suo  slancio e del sorriso scintil­lante.

Per le scale raccontò a raffica dell'esame e che sarebbe andato a Parigi per la tesi. Quando finalmente rivolse l'attenzione a lei, seppe che aveva terminato gli studi da tre anni e bevendo il caffé la trovò deliziosa. La riaccompagnò di sopra, aspettava qualcuno e si sedettero sulla panca del corridoio. Parlarono di cose che  non si raccontano la prima volta. Che era separata e aveva un figlio, che la sua città era Pescara e che cercava lavoro.

Gli esaminandi di Latino e i loro accompagnatori andavano e venivano. Uscì il PROFESSORE e attraversò la porta puntando gli occhi sopra le teste, mentre le ragazze - rari i maschi a Lettere - comprimendosi   per cedergli spazio, gli illanguidivano la nuca super­ba con lo sguardo supplice. Quanti sguardi circonflessi lasciava dietro di sé, immagini di un muto belato! Giovanni rilevava  e lei si divertiva.  

Si salutarono quando arrivò l'assistente che lei stava aspettan­do; rifece le scale da solo con due emozioni in bilico: l'esame superato e questa ragazza che si chiamava Lucia. Sull'ultimo gradino si sedette ad aspettarla.

 

    Il treno gli mostrava rapido l'inverno della montagna abruzzese: alcune nebbie in sospensione velavano i monti e un cielo pallido si posava a meditare sulle valli. Subito dopo il canale, ai bordi della strada ferrata, c'era sempre un fiume e il rumore del treno cambiava sul ponte. Sosta lenta in una stazione lungo la via ferrata da Pescara a Roma. Smoke Gets in Your Eyes. Qualcuno era al juke-box. Lo scompartimento era deserto e la stazione pure. Il treno sembrava aver dimenticato la sua corsa. Non c'era nulla che si muovesse, solo la musica ricordava coi suoi passaggi lo scor­rere del tempo, che se ne stava andando dalla vita di Lucia.

Il ritmo delle rotaie finalmente riprese. Ripeteva una parola che investiva la sua mente: eutana­sia eutanasia eutanasia.

La nebbia annullò la terra e a interval­li regolari i pali lungo la ferrovia apparivano come spettri. Si correva sulla cresta pietrosa di una scarpata dove radi ciuffi di erbe soffrivano il gelo di febbraio, e qua e là apparivano scom­parivano rigagnoli rigidi di vetro. Il finestrino all'interno era gremito di goccioline e lo sguardo di Giovanni si confondeva finché non apparve una stanza bianca, la stanza di Lucia.

Il treno ebbe un sussulto. Aveva sognato o realmente vissuto quei giorni? Perdere lo sguardo sulla inesistente parete di nebbia era un piacere fisico: si staccavano filamenti che si avvolgevano in una pigra matassa, erano ellissi, si intersecavano, andavano via, si allungavano nel tentativo di creare uno sfondo, una prospettiva.                                   

Era arrivato a Pescara di mattina. Aveva preso un caffé alla stazione e aveva attraversato la città fino al mare. Quasi affat­to sconosciuta! Eppure appena poche settimane prima una splendida città tutta sua. Sulla banchina il vento soffiava non violento ma insistente e gli gelò le guance. Alzò il bavero e continuò a guardare i marinai: si sforzavano di rimanere indifferenti al vento, come lui a quello che avrebbe visto e udito. Non si poteva entrare prima delle nove.

Fu lei a parlare per prima. Disse:

- Adesso sai tutto. Non ho voluto dirtelo quando eravamo felici: quei giorni sarebbero stati diversi per te e per me, la realtà invece sarebbe rimasta.-

Giovanni sentiva, mentre lei parlava, quell’odore forte di ospe­dale che gli faceva rabbia e l'immagine di lei nella stanza bianca gli si offuscò. Sapeva tutto, non c'era niente altro da sapere. Sapeva che la vita fuggiva dai suoi piccoli pugni chiusi, dalla pelle bianca e sottile, dalla vena azzurra sull'esile collo, e cercava come pazzo, guardandola, il suo volto. Le si avvicinò.

Tornarono gomitoli e matasse sul vetro leggermente appannato e investirono larve di alberi immobili.

 Quel viaggio in treno, da Pescara a Roma,  fu lunghissimo e non l'avrebbe più rivista.

      Eutanasia eutanasia  eutanasia, gridava il treno veloce incontro alla notte e Giovanni vedeva il suo sguardo implorante. Capiva che la vita è un bimbo che gioca con desideri proibiti, facendo tinnire i delicati cristalli della speranza, e pianse con gli occhi caparbi nella nebbia.

In ospedale aveva parlato sempre lei e lo aveva messo al corrente di un progetto che era determinata a realizzare. Giovanni ascol­tava senza emozione, le frasi urtavano contro la corazza che si affrettava a costruirsi addosso sicché alla fine, come lei era determinata a chiedere, lui fu determinato a rifiutare. Non voglio che tu soffra ma non chiedermi nulla. Il suo sguardo lo in­chiodava con sofferta dolcezza e decisione, la mente stupiva, vi penetrava un atroce significato. No, non perché l'atto sia contro natura. Tu mi hai accolto dentro di te per amore e io non posso fermare questo tuo tempo che scorre veloce. Agonia agonia! Una stanza bianca ti porta lontano: non chiedermi nulla Lucia, faccio finta di niente.

Una sera lei lo avvertì distante. Tu sei innamorato dell'amore, sentenziò quasi preoccupata più che delusa. Il suo volto era privo di mimica e il corpo di gesti, lo sguardo alla ricerca di un Giovanni inesistente. Lui in quella frase, in tutto il resto inespresso lesse un mite rimprovero per le sue fughe, per la sua incapacità di essere autentico. Provò a discutere. C'è un aspetto positivo nell'essere innamorato dell'amore, non è solo atteggia­mento di letterato, di osservatore non partecipante. Amare l'amo­re vuol dire anche cercarlo attivamente, vuol dire interrogarsi. E una volta trovato mantenerlo. Se ci si interroga troppo, oppose Lucia, forse non lo si trova o non lo si mantiene, è più grave perché coinvolge l'altro.  Non la trascinò più di tanto sul tema. Il tentativo di discutere naufragò, il corpo di lei rimasto muto lo scuoteva più di mille gridi, di percosse. La mitezza del rimpro­vero era solo apparente, come l'amarezza che si avvertiva. Sem­brava l'avvio di un distacco. Questo lesse Giovanni e si spaven­tò. Da quel momento si industriò, brancolando, a stabilire una nuova comunicazione. Non più solo giochi verbali e iperboli d'amore; cominciò a regalarle fiori e finì col prevedere le sue esigenze.

Il viaggio di ritorno, tutto intero nei particolari delle soste e dei pensieri, rimase nella sua mente. Aveva la sensazione che la storia di Lucia fosse tutta racchiusa in quel vagone. Presenti nel treno le cose che si erano dette. Il treno del ritorno, senza andata, era un distillato, essenza, elisir, di quella volta che aveva amato ed era stato un dio che portava tra le dita un fiore delicato e prepotente.

10.01.15

 

se vuoi vedere il corto

IL VIAGGIO DEL RIMORSO  https://www.youtube.com/user/mauriziomazzotta/videos

 

 



 

 

 

 

L’innamoramento – segnali particolari

 

 

 

 

 

La professoressa Rosamaria Astolfi dà al preside Guerriero tutto il tempo di cui ha bisogno. L' osserva da lontano, i pro­blemi che affronta. Non si era soffermata mai a lungo su certi aspetti della conduzione di una scuola. L'ha incrociato l'altro giorno che tornava col bidello dai gabinetti dove i cessi si erano otturati. Per non infierire aveva deciso di farsi assorbire dalla parete del corridoio insieme a una ragazzina che aveva agguantato apposta per ammurarla insieme a lei. Il preside, che da lontano dava l'impressione di un vento furioso di burrasca preso nel suo stesso vortice, si è fermato passandole accanto, una frazione d'attimo, come succede a volte al vento di poggiar­si, e ha sorriso alla bambina. A lei ha mormorato "scuola come malessere" e ha ripreso a trascinarsi via il bidello.

 

 

 

     Ci sono molte cose che la colpiscono di quest'uomo che sembra dare poca importanza a ciò che fa, come un ragazzo, e realizza come un uomo intelligente, che adocchia tutto ma sembra pure spiare se stesso. Pochi in fondo i momenti ravvicinati che ha avuto con lui, eppure sente quando si guardano, di recente nei consigli del quadrime­stre, un' attrazione inconsueta che la lascia stupita. In quei momenti le sembra di conoscerlo da sempre, le viene naturale pensarlo amico cui si comunicano emozioni, addirittura pensieri, in uno scambio affinato dagli anni. C'è stata quella colazione nell'intervallo tra le lezioni e i consigli del pomeriggio in un buffo ristorante che li ha spinti a giocare, anche per evadere dagli assilli di lavoro. Lo ha assecondato, colpita però dalla disinvoltura  con la quale lui preside ha abbandonato il suo ruolo e si è messo a giocare con un'insegnante ultima arrivata. E l'incontro in presidenza! contrario del  primo al ristorante quanto a contenuti emotivi e a cose dette; in presidenza l'ha scoperto fragile e capace di mostrare la sua fragilità, che secondo lei è il massimo della forza di un uomo. 

 

 

 

     Ormai sono più di due mesi, da quando gli ha consegnato il suo progetto in presidenza, e Rosama­ria, anche se il preside sembra essersene dimenticato, ha una convinzione fortissima: che insieme a Guerriero realizzerà qualcosa di meraviglioso per la scuola. Quel suo progetto ideato due anni fa! Lo aveva messo da parte invischiata nella sua storia sentimentale, e una mattina del dicembre scorso per improvvisa voglia, certezza dell'esistenza delle condizioni più idonee, con gesto risoluto e sicuro, lo ha recuperato dal fondo di un casset­to e riportato alla luce per metterlo nelle mani del preside. Attende con assoluta tranquillità. Poi la pausa delle feste natalizie, la ripresa colma di problemi. Lei orecchia e mai le è accaduto di essere così allertata dalle vicende di una scuola: il Comune, le ASL, gli organismi esterni, gli incontri coi genito­ri. Consigli. Interminabili consigli del quadrimestre. Si dice del preside che raramente affida le riunioni dei consigli ai collaboratori; alcuni compiti sì, ma ai consigli di classe è sempre presente. 

 

 

 

     La proposta dell'insegnante Astolfi giace sulla scrivania del preside per parecchie settimane senza che il preside la toc­chi, anzi lasciando che venga a poco a poco sepolta dalle cartelle che vi si ammucchiano. Intenzionalmente. Rimanda il momento, e più i giorni passano più quella cartellina azzurra, che lui compulsiva­mente adocchia, e che solo lui scorge sotto la pila di carte, si impone. A parte l'impossibilità oggettiva di tempo in quelle settimane, dense a scuola e fuori della scuola per le altre sue attività, potrebbe portarsela via e darle un'occhiata anche la notte prima di addormentarsi. Ma no. Sa che lo farà. Intanto, no. Né si chiede il perché di questo determinato rimandare. Non sa nemmeno di cosa si tratti, gliel'ha consegnata e basta. Quell'anomala, bizzarra, anche bisbetica insegnante! Quando parla dei ragazzi questa singolare insegnante ha occhi che brillano. Guerriero ricorda che qualcosa di simile gli è stato detto anche a lui nel lontano passato. Nelle ultime riunioni il luccichio perdurava e si sorprendeva attratto da quello sguardo. Come può dimenticare la cartellina azzurra! Eppure ogni volta che appare in corridoio la sagoma snella della professoressa Astolfi, Guer­riero avverte un oscuro rifiuto a esaminare i fogli che contiene. Per questo lascia che venga sopraffatta sulla scrivania. Teme un evento che possa cambiare dal fondo la sua vita e sbriciolare certezze, anche le certezze grame dei cin­quant'anni faticosamente conquistate? Il cambiamento, anche per un Guerriero che ha sognato rivoluzioni, riforme radicali, è un sommovimento che preoccupa per le conseguenze inconoscibili. Lo teme  prima ancora  perché lo costringerebbe a uno sforzo: spezzare il conflitto tra il rimanere ancorato a ciò che è, che è indubi­tabile, anche se lo disturba, e ciò che si prospetta potrebbe diventare: dubitabile, nebuloso. La fatica lui la spinge il più possibile da parte.

 

 

 

     Un sabato di fine marzo, marzo che si affanna ad essere di tutto, ventoso piovoso solare nevoso, marzo con le sue crisi di identità che disorienta oltre al suo solito Roma in bilico se indossare il cappotto con sciarpa e guanti o uscire in giacca o prendere l'ombrello, un sabato a scuola, alle quattordici supera­te, ora del segretario che si attarda come lui e dei bidelli che finalmente lavorano, Guerriero mentre sta per chiudere la porta della presidenza, rimane un attimo sulla soglia, guarda fuori dalla finestra per decidere se indossarlo, l'impermeabile, o tener­lo sotto il braccio, quindi compie un'azione che non c'entra nulla, non segue per logica e non è collegata agli atti precedenti, né per associazione né per aggancio causale o altro che sia; compie un'azione che pare senza motivo, senza spiegazione. Torna indietro, solleva di peso l'intera pila dei fascicoli in un angolo della scrivania, prende una cartellina azzurra, la infila nella borsa ed esce dalla scuola. Eppure non vede Astolfi da qualche giorno. La sua assenza nei corridoi, alla porta della sala degli insegnanti è stata notata. Come un vuoto là dove c’era qualcosa che si rivela necessario. Pure è presente a scuola. Ma non si mostra in giro da tempo.

 

 

 

     Giovanni Guerriero a casa sta per poggiare sopra le altre cose da fare questa cartellina azzurra, quando invece la mette al centro vuoto della scrivania. La leggerà subito al rientro dalla tavola calda di sotto.

 

Così un'ora dopo la apre, prende le pagine, le conta: sono nove. Comincia a leggerle e le legge tre volte. La prima volta è un rapido sfogliare per capire di cosa si tratti, soffermandosi qua e là; la seconda una lettura attenta per comprendere; la terza, sì la terza, ma dopo. Dopo una pausa.

 

 

 

     Assorto in un vuoto, che va lentamente colmandosi di rapide immagini che è arduo arrestare, lo lasciano attonito, incapace di elaborarle con la coscienza e il ricordo attivo. A poco a poco si definiscono da sole. Sono rappresentazioni di particolari, di ambienti, di personaggi; piacevole lasciare che siano esse a condurlo di qua, di là, associandosi: il profilo di Rosamaria Astolfi con il vento che schiaccia i capelli alla nuca, il piccolo naso leggermente curvo, la testa di lei che ha la forza della tenerezza e dell'intelligenza delicata, dolcemente penetrante nell'indagare le cose; il volto allegro di un ragazzetto di scuola; una classe, forse una sua classe, dei vecchi tempi, rumo­rosa di voglia di fare; l'arco della masseria; lo studio del nonno; i tori del nonno. A questo punto avverte qualcosa salire su dal profondo. Lo stile efficace di questo scritto! Forse l'efficacia dello stile lo ha reso penetrabile alle onde degli eventi, dei frammenti di eventi. I frammenti degli eventi si correlano, si associano unendo ciò che hanno in comune e investo­no l'uomo in una situazione dalla quale non può, non vuole, non se la sente più di fuggire.

 

 

 

     Trova a casa Rosamaria provando al telefono la domenica alle dieci.    

 

 01.10.2014

 

 

 

L’Italicus e il cavatappi

 

Abbandonò il paese precipitosamente quando Daniela gli telefonò i primi di agosto per dirgli che lei poteva lasciare Paolo col padre e tornare a Roma.

Viaggiò all'alba col fresco e arrivò poco dopo le dieci più o meno quando sarebbe dovuta arrivare Daniela. Che invece arrivò nel pomeriggio, con enorme ritardo perché i treni erano impazziti di terrore e non volevano passare sotto le gallerie né attraver­sare le stazioni e tantomeno sostare. I vagoni temevano di gon­fiarsi ed esplodere, le motrici di trascinare ferraglie contorte come in un incubo sotto gallerie di fumo infuocato.

Alberto era andato alla stazione per capire del ritardo e seppe dell'Italicus. Attese ore. Daniela arrivò sconvolta, stralunata. Avevano notizie confuse. Non che la realtà fosse sbiadita, ma si sa, le notizie imprecise contribuiscono ad alimentare l'ansia, e l'ansia la tragedia. Lei parlava di centinaia di morti, invece quest'altra volta il terrorismo nero aveva tolto la vita soltanto a dodici persone e i feriti non arrivavano a cinquanta. I dinami­tardi avevano avuto poca fortuna. Avevano mirato alto e invece il treno presagendo, con un guizzo si era liberato della galleria.

La portò in un bar all'EUR con l'aria condizionata. Presero un tè caldo, più tardi un toast. Rimasero fino all'ora di cena, non cenarono e andarono a casa di Alberto.

Dettero avvio all'intimo della loro storia con slancio semplice e generoso senza gli iniziali, tenui imbarazzi che caratterizzano il primo incontro. Probabilmente fu l'Italicus. Curiosa la capa­cità generatrice delle vicende. Avvenimenti di morte che danno vita, di odio che svegliano amore. È regola se l'oppressione cerca il sollievo, il dolore la consolazione. Accade di più: lo sconcerto riassorbito implora l'euforia, la sciagura si capovolge e richiede festosità, la sventura si rivolge al diletto, il tormento all'appagamento. La disperazione si raccomanda al tripu­dio e l'angoscia esasperata inventa la voluttà. Daniela non aveva intenzione di andare a letto con Alberto quella sera di agosto. E nemmeno Alberto a dire il vero. Daniela gli svegliava timidez­ze e una lontana memoria di sogni, la sua adolescenza che gli narrava lunghe storie d'amore, delicate persino nella ricerca dell'eros. Era stata fonte di smarrimenti.  Invece l'Italicus affrettò i tempi. Quel treno aveva comunicato terrore agli altri treni, al treno di Daniela che proveniva da Bologna e che restò a lungo nella campagna assolata lontano dalla meta. La sensazione di morte e di tragedia, forte per la confusione delle informazio­ni e la condizione di prigione, era attivamente controllata dalla ragione sicché il terrore veniva represso, mantenuto sotto da un continuo violento ragionare che assicurava: è accaduto ad altri, non a noi. Ogni repressione genera ribellione, libera energie vitali. La repressione del terrore aveva prodotto ribellione che a sua volta aveva sbloccato freni sciolto resistenze disserrato impulsi. La risoluzione del loro incontro fu presa da Daniela. Il modo in cui avvenne, senza imbarazzi e pudori, condotto al di là delle intenzioni sempre da lei. La voglia di amare era tanta.

Asciugando, pulendo, ritagliando come un esperto coreografo i gesti degli amanti al loro primo incontro, risulta una danza lenta, grave di tensione, dei due corpi che si accostano tra desideri e imbarazzi, avance e ritegni fino all'unione, che quando è generosa è una gara di doni. Nell'incontro di Alberto e Daniela, che usciva fuori da quella eccezionale giornata e si calava nell'umidore della sera estiva romana in una mansarda che si affacciava sul Tevere, il coreografo sarebbe rimasto stupito dall'assenza di ritmi, gli imbarazzi non si alternavano ai desi­deri, non c'erano ritegni che seguissero a proposte, unico, il desiderio agiva nella stanza col soffitto basso. Agiva in pro­gressione geometrica senza rovinare in gesti frettolosi, espri­mendosi nella tensione a senso unico di movimenti di sguardi di contatti di penetrazioni. Daniela ebbe l'orgasmo che non aveva mai avuto. Perché aveva suo malgrado trascorso quelle ore sul treno.

Per Daniela Alberto non era più soltanto l'insegnante bravo e delizioso del figlio; dal gelato sul lago era un uomo affascinan­te, imprevedibile, misterioso. Lei ricordò spesso le prime emozioni all'impatto con lo sguardo buio di lui, pervasivo, che te lo ritrovavi da ogni parte e non te ne liberavi facilmente.  Finivi per sentirne il bisogno. Quando era salita in treno, quasi una fuga dai suoi e dal figlio, sapeva che andare a Roma e incontrar­lo, iniziare con lui, non poteva nasconderselo, una vicenda sentimentale era una necessità prima ancora di sapere chi fosse. Le informazioni su Alberto erano in gran parte mediate dalla scuola, dai ragazzi. I ragazzi sono osservatori attenti. Da ciò che riferivano, Paolo e i suoi compagni, risultava un uomo entu­siasta del suo lavoro, che aveva il gusto di giocare. Dagli ultimi mesi, dopo l'incredi­bile visita al lago, tutte quelle notizie non avevano più alcun peso, anzi  si erano dissolte.

Era salita sul treno con la sensazione di andare verso uno scono­sciuto che l' attraeva come una calamita.

Alberto scoprì, ebbe una rivelazione, scoprì che il tempo può fermarsi, che ci sono momenti in cui il tempo si trattiene. Sono i minuti e i secondi  che si dilatano?  O le azioni, gli ogget­ti che hanno la ventura di esprimersi e di comparire in quei frangenti  si distendono, si allentano fino a stravolgere il loro signi­ficato? Quella sera Alberto colse che cercare un cavatappi in cucina era un'azione che lo rendeva felice; era azione dal signi­ficato così grande che riusciva appena ad afferrarlo. Esso non era semplicemente riconducibile al fatto che cercava il cavatappi per aprire una bottiglia di spumante. Il significato di quell'azione in qualche modo e misura, sicuramente oltre l'ovvio, aveva a che fare con l'evento Daniela, con le emozioni nuove, effervescenti, che lei aveva portato con sé e profondeva tra le pareti del piccolo appartamento.  Tutto era gonfio di vita. E bloccava il tempo. Come se il tempo si fermasse ammirato. Per non sciupare tanta forza. Per conservarla. 

Chiese a Daniela, sorprendendola:

- Secondo te è il tempo che dilatandosi dà agli eventi in esso contenuti nuovi significati o sono gli eventi che per un qualche motivo assumono altri significati, e allora il tempo si ferma per metterci in condizione di assimilare la peculiarità della loro nuova essenza? -

Daniela alzò le sopracciglia.

- Voglio dire, aggiunse Alberto, che mi sono sorpreso di due cose... prima di là in cucina... che devono essere collegate tra loro... ero felice perché stavo cercando il cavatappi, sto dicen­do che proprio la ricerca del cavatappi mi rendeva felice, e poi l'altra... ho avuto la percezione che questa ricerca fosse senza fine... come...al rallentatore, capisci, e non mi disturbava, era assente una mia impazienza a frastornarmi...-

Daniela guardava il cavatappi che lui aveva in mano:

- L'hai trovato, e adesso quel tempo ti sembrerà volato via...-

- No, incalzò. Questa... mi ci fai pensare... è la terza cosa che mi sorprende... quel tempo ce l'ho tutto... non so se io possiedo lui o lui possiede me...so che è un pallone immenso gonfio di letizia soave che mi trasporta... qui... da te. - 

Daniela accolse quelle immagini, quelle parole, come fossero gocce di prezioso elisir e le conservò. Anche a lui che le aveva prodotte servirono. Avviarono, almeno sembrò, così fu nel tempo che seguì, un recupero insperato. Per lui era risveglio di quelle spinte che traevano origine dagli appuntamenti col nonno, e che negli ultimi anni, ammaccate dagli esiti sentimentali, erano ripiegate ed erano state risucchiate dalla negatività che pure covava nelle zone oscure del suo essere. Il cavatappi coi significati sorpren­denti, incredibili, con la formidabile magia della ricerca e del suo ritrovamento, con le sensazioni le emozioni e per esse i pensieri e le parole prodotte, il contatto stabilito, il cavatap­pi fu la sua guida, la loro guida. Notò in se stesso la commossa stupefazione, non se ne compiacque al suo solito, il turbamento era sincero pure se vestito come sempre di gioco. Quell'oggetto trascese la sua essenza, divenne simbolo della loro storia e Alberto seppe di sé che poteva amare.

 11.01.2014

                              Magia della notte nel vigneto

 

- Non sarà l'atmosfera? Questa campagna è magica.
- Sì è probabile può essere l'atmosfera. Non so se riferirti, sono tentato... è proprio come hai detto tu, magica. Ma sì, te lo dico. Ti racconto cosa accade in agosto tra le vigne.
Ancora più di lui, che usa le parole ad arte e che si sta persuadendo a rivelare le favole dei suoi vent'anni, recuperate dalla memoria, sorgenti emerse all'improvviso da strati di roccia, freschissime, ancora più di lui che si sta inserendo nel suo stesso sogno, gli occhi di lei scintillano. I bambini ugualmente si accendono se qualcuno racconta loro una storia annunciandone il mistero coi gesti e con la voce. Rosamaria si muove nel letto e si rannicchia frontalmente verso di lui. Che le bacia la punta del naso, anzi glielo lecca, e lei ha un moto sommesso di ribellione e non sa se sorridere per il naso bagnato e solleticato.
- Sto per raccontarti una storia vera e ho paura che tu non mi creda. Ascolta, ci sono le vigne qui intorno oltre agli ulivi naturalmente.
C' è un mare di vigneti alti intricati tanto sono vecchi. Arrivavano fin sotto questa finestra e le sere di vento si udivano distintamente i sospiri delle foglie che si accarezzava­no. In agosto accade un fatto straordinario nei giorni di luna piena. Stai attenta! Tutta la campagna freme. E' notte eppure c'è tanta luce, non quella violenta del giorno che ammutolisce i pampini e immobilizza tutte le verdi creature della campagna, che asciuga le zolle rossastre e lascia senza respiro le pietre. E' una luce annebbiata... lattescente...
- Lattescente?!
- Non ti piacerà, ma è proprio così, lattescente, bianca­stra, albina. Una luce bagnata d'umido. Che sveglia l'attenzione della campagna e le regine del Salento...
- Chi sono le regine del Salento?
- Eh dammi tempo!
Finge fastidio; come se faticasse a riprendere il discorso e con un soprac­ciglio alzato a sottolineare lo sforzo e colpevolizzare l'irre­quietezza di lei che ascolta. Lei di rimando finge pentimento e vi aggiunge un lievissimo: scusa scusa, continua.
- Le vigne sono le regine del Salento. I re sono gli ulivi. Vecchi re sofferenti di artrosi che si rallegrano dell'umido bianco che ammorbidisce i nodi dei tronchi e dà momentaneo sollievo. Attraverseremo gli ulivi per arrivare alla vigna. Tra un po', dopo mezzanotte. Quando inizia la festa più discreta, più delicata, più...più intima che si possa sognare. Vedrai sotto la luna i giovani ulivi che hanno un destino di vecchi; i re, maestosi e sofferenti, ripiegati sui loro sogni di solitudine, essi non tollerano la vicinanza e hanno bisogno di vuoti attorno per potersi allungare, contorcersi. Vedrai le loro straordinarie posture di vecchi danzatori che si muovono adagio dubbiosi della loro forza. Sarai affascinata da questa danza silenziosa e cauta che dà inizio alla festa e ti verrà voglia di imitarli, perché quelle visioni trascinano ma non devi farlo, assolutamente!!! I maghi della campagna sorvegliano che tutto accada come deve accadere e ti convertirebbero in oliva.-
- In oliva?!-
- Silenzio!e ascolta. -
- E chi sono i maghi della campagna?-
- I ficodindia...che domande. Basta guardarli e si capisce.-
- Sono maghi buoni o maghi cattivi?-
- E' una vecchia, pericolosa questione. Penso che bisogna saperlo prendere il ficodindia...con i guanti, ma non di velluto, e discutere con lui a piccole dosi. I ficodindia vanno soli ma anche in compagnia. A volte si danno convegno e si ammucchiano a decine per deliberare oscure strategie. Ti viene naturale rimanere alla larga. Più spesso sono a guardia di costruzioni abbandonate persino dal tempo, case diroccate la cui rovina non va oltre, non procede. O sono ai limiti dei campi e segnano i confini. Li vedremo al confine tra gli ulivi e i vigneti con le loro bizzarre braccia dalle cento mani che sembrano offrirti dei fagottini dorati. L'incauto che in questa notte incredibile guidato dalla luna, complice, li scorge e ammaliato accosta la mano per affer­rarne uno è di colpo fuori dell'incantesimo, nella realtà di una mano trafitta da aghi che si spezzano apposta per rimanere nella pelle.
Io ti sorveglierò che non ti venga voglia di imitare gli ulivi e ti terrò per mano. Così tu già rapita arriverai ai bordi del vigneto, dove i ceppi alti si stipano e oppongono un muro di foglie e piccoli robusti tronchi ai deserti degli ulivi. Avrai paura e sarà la tua prima forte emozione. Angoscia di essere avvolta, di perderti, propria degli umani. Ma se dentro di te porti amore, proprio tanto, coglierai i sospiri, le voci sommes­se, a poco a poco distinguerai il tuo e il mio nome. Sono gli uomini delle vigne che ci chiamano alla festa. Faremo una cosa che troverai naturale, che adesso appena la dirò ti preoccuperà. Ci spoglieremo totalmente...-
- Non mi preoccupa - - Zitta! Vedrai le prime vigne allentarsi e schiudersi. Entre­remo nel vigneto. Avrai solo il tempo di accorgerti che la festa è la festa dell'amore terreno. I tuoi timori residui cederanno alla gioia e al piacere. Un amore terreno lontano mille miglia dal nostro amore terreno, che ha spunti di violenza, chiusure ed esplosioni. Gli uomini delle vigne sono maestri di dolcezze. Ci prenderanno e si offriranno a noi, in mille guise. I nostri corpi si schiuderanno per accoglierli, per accoglierci. Penetrati in ogni dove ci addormenteremo in un abbraccio intricato che avvolgerà noi uniti e loro che ci uniscono. I nostri sensi ci avranno permesso di comunicare tra noi e con loro simultaneamente e l'esperienza sopraffatta dal sonno rimarrà come memoria di un lungo dolcissimo totale orgasmo. Sentiremo le loro storie sulla pelle e li comprenderemo. Capirai che l'amore terreno può stare al confine con gli angeli e quando riattraver­seremo gli ulivi comprenderai che gli uomini delle vigne si rifugiano nei vigneti impenetrabili delusi dall'incapacità degli uomini di coniugare il profano con il sacro, l'infimo con il sublime, il terreno con il celestiale.

  12.10.2010

Il luogo del sogno è una chimera anche quando il sogno si realizza

 

La mano tenera e nervosa risponde alla stretta e riempie la mano di Giovanni. Ha temuto il disagio, e lo prova per un tempo assai breve, si rassicura: il luogo più idoneo per la mano di lei è la sua mano.  Lei lo riconosce, si abbandona, si lascia trasci­nare come una bambina contenta di andare chissà dove, forse verso un gioco che non ha previsto.

Egli sente per la prima volta un'energia smisurata, un biso­gno di espandersi e di comprendere il mondo, di convogliarlo dentro di sé. Una mano piccola e forte accende le sue sensazioni e per prima cosa avverte di questa mano muscoli, nervi e sangue e per essi le vibrazioni del corpo, poi al di là dei corpi annusa l'aria, l'odore della campagna reso più intenso dai suoi sensi, ascolta il silenzio più carico, accoglie sulla sua pelle l'umido della sera.

- Guarda, guarda la lanterna, le cose intorno sembrano scappare tornare rincorrersi, la lanterna sveglia la voglia di gioco che hanno le pietre gli alberi noi stessi, perché gli  uomini vogliono giocare e non lo sanno. Adesso ti rac­conto di mio nonno e dei suoi tori che hanno galvanizzato la mia adolescenza.-

Rosamaria si sente una bambina che sta giocando con un coetaneo straordinario. Ecco chi è veramente Giovanni Guerriero! Prova una sensazione nuovissima, il suo corpo divenire morbido come la cera al calore, le sue membra sono il torrente che stra­ripa e sembra perdere forza e invece è la violenza che si dissol­ve ma la forza rimane, la sua mente si distende nella pace col corpo e il corpo la riassorbe. Non vuole pensare, non c'è niente da pensare se non che è l'emozione più grande che abbia mai provato e si commuove come una donna che vuole tornare bambina e finalmente ci riesce.

- Ci allontanavamo da tutti. Venivamo da quest'altra parte e la casa ci nascondeva alla vista della nonna e dei contadini che le sedevano intorno sul ballatoio. Appena entravamo in questo sentiero lui cominciava a raccontarmi le sue storie. Ma adesso starò zitto perché la magia si nutre di silenzi.-

Costeggiano il muro di cinta, attraversano il frutteto, entrano sotto il pergolato. A Rosamaria sembra la casa di marza­pane delle fiabe, una casa vivente, il soffitto sono grappoli d'uva che si offrono tanto prorompono di polpa e di succhi. Giovanni scavalca il muretto, il sentiero termina contro il muro del recinto a cielo aperto del toro e a questo punto  o si torna indietro o si superano le due linee di blocchi di tufi, che deli­mitano il viale, e si rientra nel cortile sul fondo per raggiun­gere la stalla del toro attraversando la vaccheria. Coi piedi sul muretto Rosamaria in alto è tentata, il grappolo più lungo le ha toccato la fronte. Aspetta, voglio assaggiarlo. Libera la mano e alza il viso e le braccia per staccarlo. Giovanni vede con emo­zione nuova il corpo di lei, in prospettiva verso l'alto. Lei è nello slancio verso la cupola verde della pergola, ha deciso di prendere un grappolo più piccolo che ha scorto nel baleno della lanterna, ma il grappolo più piccolo è in alto e la lanterna che Giovanni solleva per farle luce illumina la pelle del suo ventre. La camicetta è uscita fuori dalla gonna, si è accorciata si è staccata dal corpo e lascia scoperto l'addome asciutto là dove si scapriccia l'ombelico. Giovanni ipotizza soltanto il contatto come un timido adolescente e soffre da adulto all'ipotesi; l'emozione galoppa nell'intimo e lui inspie­gabilmente si ostina a frenarla per non correre il rischio di deprivarsi di una favola bella alla pari di quella del nonno. Caccia via la strega delle sue fantasie, pur riconoscendo che il corpo di Rosamaria è altrettanto voluttuoso. Lei scende dal muretto e sorride mentre assaggia i chicchi. Sono dolcissimi, ne vuoi? Il volto, pensa Giovanni osservandone i lineamenti, è di una tenerezza terrena, e questo pensiero è struggente e si tra­sforma in una sensazione che corre stropicciando la pelle. Questo è il recinto aperto del toro, la stalla è vicina, ci si arriva attraverso la vaccheria. Rosamaria gli offre la mano e l'aggancia alla sua con dita svelte e tenaci e la trova calda. Forse il contrasto col grappolo fresco? Un tepore che la stordisce, e chiude gli occhi; lascia dietro di sé la disinvoltura, la spi­gliatezza un tantino fiera del gesto di prendersi il grappolo e di staccare il primo chicco col morso e ritorna bambina o alunna, quello che prova non di rado quando lavorano insieme. La trascina verso la stalla del toro allo stesso modo di come si dice ai bambini vieni ti mostro il posto dove si avverano i sogni e lei ci crede, non "vuole" credere, ci crede e basta con innocenza e impeto. Una strana bambina che si ritrova risucchiata nei domini della donna quando Giovanni le rivolge lo sguardo. Nel ristorante a Santa Maria, la prima sera ha provato sensazioni affatto diver­se dai primi giorni a scuola, l'autunno scorso. Allora Giovanni esprimeva uno sguardo dal quale sembrava doversi difendere poi aveva intuito in lui la presenza forte di qualcosa di intatto. Nell'atmosfera della masseria e della casa, lavorando, più volte era stata distratta dai suoi occhi e dalla dolcezza che trasuda­vano. In quei momenti si è ricordata del suo corpo. Questa sensa­zione  quasi violenta Rosamaria la prova adesso che è scesa dal muretto, il corpo le dà violenti strattoni, lei continua a strin­gere la mano calda. Gli occhi di Giovanni sono laghi oscuri da non temere, danno certezze di tesori nel fondo. Trattiene con un breve strappo il braccio di Giovanni. Siamo arrivati annuncia lui aprendo la porta della vaccheria. Non mi importa ho già capito tutto, dice lei offrendosi. E' così che Giovanni raccoglie tra le dita il volto di Rosamaria, sfiora i suoi occhi, che lei mantiene aperti per entrare nei suoi, sfiora la curva del naso, le labbra, poi se ne va dietro a raccogliere la nuca. Nella sua mano c'è una realtà vera, proiezione di sogni remoti che gli eventi hanno prodotto concretamente. La memoria di Giovanni corre impazzita scartando confronti, ciò che gli viene in mente non è altro che lei lei stessa un paradosso! lei è presente viva trepidante e la memoria di lui corre  a raccattare svegliare convogliare i momen­ti in cui lei lo ha fatto sognare. Inaudito! la confronta con lei stessa: il profilo della nuca quando una sera in automobile i capelli aderivano schiacciati dal risvolto del cappotto il suo incedere nei corridoi della scuola il suo corpo sotto la pergola i sogni di ragazzo. Il confronto se confronto si impone è con la fanciulla immaginata proprio lì alla masseria. La memoria si frantuma e si disperde ubriacato il cervello dalle sensazioni tattili visive. E Giovanni sente il suo fiume gonfiarsi ed è assente quell'angoscia di sempre: il fiume si gonfia le sponde lo trattengono appena un dolore tranquillo. Scorre con la certezza di essere vicino al suo mare. Si accosta per baciarla col bacio più tenero che abbia mai dato.

Rosamaria non vede la stalla questa sera. Dove si dimostra che il luogo del sogno è una chimera anche quando il sogno si realizza.

 

31.12.2010

 

 

Narrare se stessi

 

La sta osservando come non gli è mai accaduto di osservare una donna. Le mani al volan­te, il profilo della testa; i capelli che modellano la nuca  gli richiamano alla mente un'immagine viva nella memoria. La copertina di una rivista scientifica: era una testa di profi­lo, di giovane donna dai lineamenti delicati; la nuca, anzi tutta la testa sino alla fronte, proprio come questa di Rosamaria, era rappresentata in trasparenza sicché si vedeva, meglio si intrave­deva - tanto il segno era sottile - la massa cerebrale. Non distur­bava; era emblematica e commovente perché dallo sfondo, anch'essa accennata, affiorava una scena dei primordi dell'umanità: due scimmie impressionate dall'incendio della foresta. Immagine che evocava il meglio dell'uomo. Se l’essere umano ha percorso tanta strada è per la forza di questa nuca, delicata, di questa testa, di questo volto morbido e fine.

E’ lui che comincia a parlare. Parlare di sé. Ma non per compiacimento, egocentrismo o altro. Per bisogno improvviso e incontrollabile. E alla fine si sorprende che in tre quarti d'ora un uomo possa raccontare la sua vita. Il vantaggio dei percorsi in auto, intermina­bili nell'ora serale prima della chiusura dei negozi! Sia pure un distillato di vita. Come esso possa essere condensato in poche frasi spontanee in un momento di abbandonata ricerca alla presenza di una persona che si sente amica. Non ricorda come e perché ha cominciato. Che si sia accorta che la stava osservando? Ha cominciato chiedendo qualcosa che adesso non ricorda. A un certo punto si è messo a parlare.

Narrare se stessi può essere un guardarsi allo specchio per deprimersi o esaltarsi, un’esibizione di misfatti o buone azio­ni. Può essere una ricerca sincera dei motivi dell’agire nel tentativo di realizzare quel “conosci te stesso” che pare una chimera. Esigenza di scambio nell'amicizia - amicizia o altro? - al suo nascere. Giovanni ha  questa sensazione: due persone sedute, l'una al fianco dell'altra, il tempo che hanno davanti si dilata e sprofonda all'infinito; uno dei due che ha più urgenza, o perché più consapevole del momento e della presenza, forte, dell'altro, dell'aver scelto di sedersi al suo fianco, comincia e allenta i cordoni della sua bisaccia: è dono, è anche invito. Nell'altro che ascolta si maturerà la stessa esi­genza. Attenderà paziente il suo turno. Non c'è più il tempo tra i due a scandire ritmi; può accadere in un qualsiasi momento, in altro sito. I due, di nuovo, appoggiando gli omeri per annunciare il contatto, riprendono il parlare interrotto: è il turno di chi ha ascoltato in precedenza. Non necessariamente. Questi scambi sono frammenti di incontri, accadono tra persone senza che ci sia null'altro in comune, né l'età, né il sesso, né la cultura. Lui immagina dei piccoli globi vaganti in uno spazio illimitato, senza senso, che al contatto si accendono e diventano trasparenti. E' allora che l'andare senza meta e lo spazio stesso assumono un significato. La coppia di piccoli globi illuminati d'incanto ha una direzione. Sono attimi. Poi si allontanano, e ritornano nel vortice spento. La condizione del nostro vivere, intuisce Giovanni, ma accade che l’uomo si opponga. Giovanni non  rifiuta che sia il caso a determinare l'incontro, quello che non  accetta è l'ineluttabilità del frammento d'in­contro. Allora vuole adoperarsi perché l'incontro perduri. Dipende dalla risoluzione a perseguire un fine, a dare un senso. La natura del globo s’impenna, ha una mutazione. La divergenza, espressione della fuga suicida, si tramuta nella convergenza, e i due piccoli globi trasparenti continuano ad andare l'uno a fianco dell'altro.

Ha raccontato di sé senza la voglia consapevole di impressionare, senza giocare accompagnando d'ironia gli eventi più drammatici: bisogno di scandalizzare più che trasgredire. Ha attenuato frasi, le ha rese autentiche. Ha detto parole senza mediare il suo pensiero, con la naturalezza con la quale avrebbe parlato a se stesso. Ha semplificato la sua esistenza, né enfasi né mistificazione. Ha riferito di sé l'essenziale filtrando la sua storia.

Giovanni Guerriero conclude che Rosamaria ha scavato montagne di scetticismo, di coperture, di falsi bisogni, cumuli di inerzia. Ha portato alla luce lieviti sepolti. Sente gratitudine per il significato recuperato. Il cambiamento dap­prima produce ansia; una volta in atto si autoalimenta. Può essere un piccolo passo e già è propellente per il secondo che produce una trasformazione più vistosa. Allentare i freni, lasciarsi andare; nutrire la propria forza inebria.

Guerriero crea spazi; compiti, incombenze, inviti, li ridu­ce, li rifiuta addirittura per accumulare ore per il lavoro al progetto di Rosamaria. Lavorano insieme. Tra l'insegnante e il preside nasce un'amicizia sull'onda dell'entusiasmo e dell'impegno intellettuale. Dal momento che gli obblighi per un preside, pure se cacciati, tornano e bussano con insistenza, sicché spesso gli diventa impossibile sottrarsi ad essi, Guerriero va a casa della professoressa Astolfi anche dopo cena. Per lavorare. E fanno tardi, si stancano, sono soddisfatti.

Ed è lei che parla questa volta, ma non di sé, non se la sente, del loro lavoro, di questo stare insieme e produrre.

- Lavorando a questo progetto mi vengono tante doman­de sull'insegnamento, sull'educazione. Sul perché una persona sceglie di insegnare. Su come la gente considera l'insegnante e l'insegnamento. Mi sembra che i concetti espressi da parole come insegnante, insegnamento, educazione, insomma questi concetti abbiano alle spalle contraddizioni conflitti paradossi tra i più sensazionali ma allo stesso tempo tra i più sotterranei. Sono incoerenze che abbiamo imparato a dribblare ma in quei momenti, quando si presen­tano, la loro evidenza è tale che ci stupisce. L'inse­gnante vuol modificare l'altro intenzionalmente. Questo mi spa­venta. So che è così, che anzi chi lo nega è più pericoloso, mistifica la realtà dell'insegnamento e dell'educazione. So che educare è necessario e non può che essere intenzionale. Forse allora il rifiuto, la resistenza verso la scuola deriva proprio da questo? Si riconosce carattere di necessità ma si resiste, si rifiuta tutto ciò, uomini e ambienti, che ci hanno indirizzato, modificato, reso quello che siamo. Sorge un impulso: cambiare mestiere. Mi fa paura, non mi piace più. Poi pensando a quello che stiamo scrivendo, a questo lavoro, mi convinco che forse siamo sulla strada giusta. Puntare in primo luogo all'accettazio­ne di noi stessi, degli altri. Insomma un'educazione che migliori il nostro modo di stare con noi stessi e con gli altri, tutto il nostro mondo di relazioni. Significa dare coscienza di sé a bambini e ragazzi. Avvertire i giovani che dare un senso alla vita: comunicare, lo scambio, dare e ricevere, correre rischi, avere coraggio, dubbi e perplessità… dare un senso alla vita  significa partire da un'accettazione di ciò che ci accade.    

- Che senso ha insegnare l'algebra e la sintassi se non edu­chiamo prima a produrre una propria storia personale improntata all'autonomia di pensiero, alla capacità di mettersi in discussione, di tollerare il confronto? Produrre una proprio storia personale. Sentirsi uguali nella divergenza, nella diversità, nelle manifestazioni a volte oppositive, senza che ciò incida sulla consapevolezza che tutti noi abbiamo  sensazioni, emozioni, pensieri, che ciascuno di noi è in grado di esprimere e che cia­scuno di noi è in grado e vuole comunicare. -

Anche nelle pause, quando si spostano gli occhiali e si passa la mano sulla fronte e Rosamaria  discorre argomenta medita ad alta voce e parla, parla, Giovanni, Guerriero, il professore, il preside continuano a stare uniti, non un’unica persona, restano separati ma serrati ad osservare questa donna che sa cosa fare, dove vuole andare, e non sanno se compiacersi di starle accanto per le cose che dice oppure commuoversi perché lei, Rosamaria, Astolfi, la professoressa, è una donna che ha questo volto, questi gesti, queste espressioni, gli occhi che ridono, i riccioli che scappano.

 

25.03.2010

 

La sveglia sul comodino

 

- Facciamo il gioco dell'oggetto e del pieno possesso?-

- Il gioco dell'oggetto e...?-

- Sì, è il titolo del gioco. Gioco dell'oggetto e del pieno possesso. Pieno possesso si riferisce all'oggetto in quanto esso, con la sua fisicità, l'inerzia, permette il pieno possesso.-

- E com'è questo gioco?- chiese Ornella, tentando di ricongiungere i lembi della camicetta.

- No no sta’ ferma. Tu sei un oggetto, non pensi, non agisci. E' la regola. Non pensi, non agisci, non gioisci, non hai sensazioni né percezioni né moti, piacere disappunto accettazione rifiuto, nulla di tutto questo, assenza totale. Ti concedo il respiro, non posso evitarlo, altrimenti forse non ci sarebbe il gioco...Gioco dell'oggetto e del pieno possesso. Ti va?-

Sorrise tentata e lui: - Da questo momento il tuo stato è l'iner­zia.-

- Non ho ancora deciso...-

- Ssss! L'oggetto non decide. L'oggetto è nelle mani di chi lo manipola...-

Marco riprese a sbottonare la camicetta.

 

Era stato nell'ultima riunione del consiglio di classe, convocato per discutere un evento critico, che Marco si era accorto di lei. Avevano sorriso di complicità alla frase della collega, di Lettere e del Nord, che stava riferendo sul fatto-misfatto sul quale occorreva decidere provvedimenti disciplinari. La frase era conclusiva, probabilmente d'effetto nelle intenzio­ni. La collega con eloquio forbito ed enfasi gasmaniana, sottoli­neata ancora più dall'accento milanese, si era espressa: mi trema­no le vene ai polsi al solo pensiero che mia figlia potrebbe trovarsi in una simile classe! Marco e Ornella si erano guardati. Il commento, con toni di pathos sofocleo, era per l'episodio accuratamente e sapientemente riferito al fine di impressionare, riguardante il comportamento di un alunno che aveva scritto sul diario della compagna una frase irripetibile, che si rivelò poi dichiarazione d'amore semplicemente esplicita. Tale pesante dichiarazione fu contemplata, non letta, dalla preside e da tutti i docenti quando il diario incriminato prese a circolare sul tavolo. Era scritto: bionda beato chi ti monta e se ti monto io beato il cazzo mio. Marco, incoraggiato dai sorrisi di Ornella, con studiata timi­dezza nel rivolgersi all'insegnante, scusa collega, aveva chiesto, mi sai dire se non si scrivono a scuola questi versi dove e quando si scrivono? Si era scatenato un putiferio. Parole impor­tanti, frasi di condanna irredimibile di certi docenti, discorsi senza fine, nel senso che venivano interrotti. La più grande strepitosa confusione zuffa rissa accapigliamento docente nelle scuole romane di quegli anni che, fuori della scuola, nelle strade, all'esterno di quel consesso di insegnanti stantii, si avviavano ad essere di piombo. Nella scuola si discuteva animata­mente sulla parola: cazzo, sul fatto che era stata scritta da un alunno, e sul diario di un'alunna; si discuteva perché aveva fatto tremare i polsi di un'insegnantemadre, come si usa dire ragazzamadre si dice pure insegnantemadre, categoria che preoccupa per il fanatismo educativo improntato all'integralismo amoroso; si discuteva sulla beatitudine del cazzo. Gli anni stavano diven­tando di piombo anche perché la ribellione dei giovani iniziata a scuola e per la scuola non aveva cambiato nulla, nemmeno l'atten­zione della scuola, la qualità dell'attenzione che i giovani si aspettano dalla scuola e dalla società. L'animazione continuò nel corridoio e Ornella  che era stata l'unica a difendere la richiesta di Marco, spiegandola e aggiungendo del suo, l'aveva tirato via per portarselo con la sua automobile. Lui era appiedato e le aveva chiesto un passaggio per il ritorno.

Sai cosa mi ha infastidito in quella frase del ragazzo? E gliel'avrei detto, sì gliel'avrei proprio detto perché impari a produrre versi più...più puliti, si mise a dire, mentre lei si disimpegna­va dal parcheggio e già si disorientava per quel puliti che Marco aveva utilizzato a bella posta. Non puoi dire monta, gli avrei detto, risulta una rima forzata con bionda. Bionda ha il senso di un intero verso tanto è importante, nella poesia ha un significato preciso, è il personaggio, e allora merita una rima pulita. Bionda beato chi ti monda. E gli avrei detto: immagina di essere di Avellino, quindi tu vuoi dire monta ma ti esprimi con un monda che rende giustizia a bionda. Insomma gli avrei detto di correggere: bionda beato chi ti monda e se ti mondo io beato il cazzo mio. Ornella aveva riso per tutto il viaggio, commentando che a quel modo Marco da buon insegnante avrebbe approfittato per fare una lezione ad ampio raggio, che partiva dall'analisi del testo poetico e arrivava a recuperare le distorsioni regionali.

L'anno scolastico era appena iniziato e avevano parlato, di scuola e di politica, e si erano trovati d'accordo su tutto. Marco aveva scoperto che aveva belle labbra: carnose, senza essere grosse e appariscenti, anche il colore, rosantico. Lo aveva invitato a pranzo per il giorno dopo che era una domenica ed era padrona del campo, i suoi sarebbero andati fuori. Marco aveva accettato. La domenica si era recato da lei a piedi, tanto erano vicini, e ottobre invitava, splendido e tiepido come sa essere a Roma, che in particolare a Trastevere si offre a chi la ama. Il quartiere gli aveva sgombrato la mente di quelle scorie sedimen­tate negli ultimi anni e Marco aveva accettato, come non gli accadeva da tempo, tutto quello che offrivano le vie da Santa Maria ai piedi del Gianicolo.

Mentre Ornella preparava l'amatriciana, lui se ne era andato in giro per la casa a scoprire mobili consolida­ti dal tempo, testimoni di vite semplici. Il padre di Ornella era operaio tipografo. Avevano ripreso a parlare di scuola mangiando e Marco aveva sentito gratitudine per quello scampolo di familiarità.

Vai a letto dice Ornella, io metto in ordine in cucina. Dopo usciamo e mi offri il gelato. Si stende, vestito, su un letto che non è il suo in una casa che sa di nonni di un altro mondo, che qualcuno gli ha descritto appena, eppure li vede mentre si assopisce aggirarsi discreti per lasciare riposare l'ospite, li conosce dalle suppellettili d'altri tempi, umili e sagge, che non turbano né sono turbate dalla sua presenza. Ornella entra silenziosamente per prendere qualcosa e si accosta al comodino. Ho dormito dice Marco aprendo gli occhi. Ti ho svegliato, scusami. No, resta, offrimi una sigaretta. Ornella gira attorno al letto e si siede anche lei sul letto gran­de, matrimoniale, come un'indiana.

La casa è silenziosa e le frasi cadono nella coscienza insonnolita come piccole pietre nell'acqua, allargando cerchi che si sperdono in breve sulla penombra, sul fresco della casa, sull'autunno forte, sull'odore di caffè che permane. Un lembo della vestaglia sfugge via, lei con cura lo rimette al suo posto, Marco intravede la pelle abbron­zata e la guarda, scivolano per distendersi e contemporaneamente lui l'avvolge, nei pantaloni qualcuno è prigioniero e chiama per improvvisa impazienza, i movimenti si compiono frenetici e ral­lentati e dopo secondi ridono perché è entrato è uscito ed è venuto. E meno male che è uscito, aveva sospirato Ornella e Marco aveva riso. Quella eiaculatio precoce non lo aveva preoccupato, era stato comunque bene nel grande letto matrimoniale, che prima gli era apparso di spropositate dimensioni.

 

- Devo verificare - Con aria di anatomista il professore Marco palpò il seno.

- Devo verificare - poi, mentre palpava il seno: - Un'ultima deroga: se hai da chiedere qualcosa sul gioco, chiedi pure. Quando suonerò il gong non potrai più. Sarà l'inizio del gioco, che ha una caratteristica che lo contraddistingue da ogni altro gioco: la irreversibilità. Deciso il gioco, avviato, non è più un gioco e non si torna indietro.

- Mi fai paura...-

- Questa non è una domanda, e potresti accettarlo proprio perché ti fa paura.-

- No no... senti questa... aspetta un po'...-

- Ascolta: se la regola è che tu non pensi non agisci non gioi­sci, una volta accettata questa regola, dal momento che tu sei un oggetto diventa un gioco senza regole. In quanto sarò solo a giocare, tu non esisti. Io muoverò il tuo corpoggetto imponendo a voce alta il mio volere. Esempio: spostati sul lato in modo che il seno compresso si inorgoglisca tanto ne ha ragione. Oppure modellerò il tuo corpoggetto come uno scultore con la morbida creta. I fianchi risaltano in questa posizione e se spostiamo la gamba appare lo splendore dell'interno di quest'altra coscia. Ancora: trasmetterò i miei comandi con le dita, le labbra, la lingua, i denti.-

Una pausa studiata dopo le ultime parole con toni più morbidi e carichi di messaggi e gli occhi in quelli di lei. Quindi suonò il gong.

Erano a casa di Marco. Aveva voluto ricambiare l'invito e con l'occasione controllare se la seconda volta gli sarebbe riuscito di entrare, restare, prima di venire. Aveva la sensazione che sarebbe stato facile. Non era un caso il gioco dell'oggetto e del pieno possesso. Il possesso sarebbe stato pieno se avesse ignorato l'oggetto posse­duto nel senso che esso non avrebbe potuto influenzarlo né dargli emozioni. Era un gioco; ma nuvole di tenebre stavano trapassando Marco.

Cercò col naso l'ascella e quando la forza che si svi­luppò sotto il suo ventre divenne prepotente, penetrò quel corpo inerte. Affondò la sua idea fissa, dura di ferro dentro un tunnel di sicurezze. L'idea fu ostinata, sottoposta a coazione a ripete­re colpi che gli davano la bruta coscienza che a quel modo l'oggetto sarebbe stato in suo potere. Ma per solenne contrasto, al contempo, Marco voleva che l'oggetto si svegliasse a testi­moniare la potenza dell'idea. Ecco, per violenza di sortilegio, l'oggetto animarsi e rispondere con una spinta che andava incontro all'idea quando essa affondava la sua presenza. Sostò per contemplare, soddisfatto, il risveglio dell'oggetto.

- Ti prego continua - disse l'oggetto.

- Tu sei un oggetto suscitato da un sonno di profonda inerzia. Quando raggiungerai l'orgasmo sarai una donna fatta da me.-

Era un modo, comunque corretto, di interpretare il mito di Pigmalione che qualcuno gli aveva raccontato in tempi remoti.   

- Sì, ma adesso muoviti per favore -

- Ancora non puoi chiedere nulla. Soltanto io so come e quando muovermi, e se voglio svegliarti col ritmo lento e dolce o con un’ implacabile furia di colpi. Ti si concede qualche cenno e qualche mugolio.-

- Ti prego -

- Se preghi esco, vado via -

- No no, fai come vuoi -

- Ecco la frase giusta. E io voglio questo questo questo questo e tu grida grida grida grida.-

Marco aveva le braccia puntate contro il materasso, l'espres­sione del volto dura. Ornella, per fortuna, non poteva vederlo, aveva gli occhi chiusi finché non lo attirò a sé. Solo allora Marco stemperò la durezza del suo volto cogliendo dalle labbra di lei un grido di resa.

- Ma tu chi sei: quello di domenica scorsa o quello di pochi minuti fa?-

- Lascia perdere. Voglio sapere se hai goduto -

- Non lo so. So che non mi è mai piaciuto così tanto -

Marco doveva sapere e insistette: - Ma come ti senti, rilas­sata o ancora eccitata?-

- Forse ancora eccitata, però sono distrutta -

- Allora non hai goduto - concluse sforzandosi di non far trape­lare la delusione. Intanto contemporaneamente pensa che non è valsa a nulla la fatica e gli tocca ricominciare non  sa se ce la farà ne farebbe volentieri a meno ma come è complessa la sessua­lità femminile me ne ero dimenticato non basta scopare per ore mi conviene collocare la sveglia sul comodino in modo che possa consultarla con una rapida occhiata voglio monitorare la durata della durezza.

Ornella riconoscente sfiorava con le labbra la sua pelle transitan­do per il suo corpo in largo, in lungo...

- Adesso l'oggetto sei tu, sussurrò senza alzare la testa e poi: il pieno possesso sarà mio -.

Non disse più nulla e cominciò con una dolcezza infinita che fiaccava muscoli nervi ossa. Marco non si oppose, cercò di farsi oggetto, ma non poté fare a meno di avvertire i torrenti insorgere dalle profondità del suo essere e convogliarsi ed esplodere nella cascata del piacere.

Tutto l'autunno servì ai loro giochi, replicati, ridefiniti in continuazione. Marco si pose l'obiettivo della scopata illi­mitata. Il progetto si perfezionava tramite il controllo delle prestazioni con la sveglia posta in posizione strategica sul comodino. Quando si rese conto che allenava oltre al membro anche le membra sempre più impegnate nella eiaculatio differita, conce­pì che poteva coire l'intero pomeriggio e riprendere il giorno dopo, che il coito, per quanto lo riguardava, avrebbe potuto concludersi al suo comando. A Ornella diceva tutto; della sveglia sul comodino no, per un certo, tenue risveglio di sensibilità dal momento che sapeva che la stava utilizzando. Quando sfiorò per la prima volta i trenta minuti, al commento di Ornella, a pezzi: sei instancabile, saranno ore,  precisò con noncuranza: ma no sarà mezz'ora, sforzandosi di trattenere la frase: è mezz'ora ho tenuto d'occhio la sveglia.

 

04.04.2008

 

  La strega

 

     La febbre che si accompagna a sogni, memorie e tenui deliri gli consentiva una percezione imprecisa del trascorrere delle ore. L'urgenza del caffé rivelò il mattino, non altro, dalle imposte non trapelava luce, nemmeno quella sbiadita dell'alba. Niente scuola: dunque imporsi di dormire!

Si sveglia di colpo con immediata, assoluta lucidità, come se l'amplital non si trastulli a minare il suo corpo con la scusa di dover colpire nemici invisi­bili. Nella stanza offuscata il vetro della porta è un'ombra chiara per il lucore che viene dal bagno adiacente, le cui fine­strelle hanno gli scuri spalancati. L'alba sta sorgendo dubbiosa se regalare al giorno altro freddo, che si addice alla notte.

Scende le scale.

Appena nell'ingresso, pure se la meta è la cucina e l'intenzio­ne il caffé, infila, senza averlo deciso, la porta del salotto e si meraviglia di vederla sul divano che si taglia le unghie dei piedi.

Gli sorride con due occhi nerissimi, più neri dei suoi; neri sono anche i riccioli lunghi dei capelli. Ha un vestito che la scopre in più parti e siccome ha le gambe contratte rivela di profilo la massa scura della sua intimità.

Sta dicendo qualcosa, sembra una cantilena borbottata di certo non per Giovanni rapito dalla sua bellezza aggressiva. Però lo guarda, e allora Giovanni si sforza di ascoltare ma non intende, il suo linguaggio è oscuro.

- La preistoria è il fiorire dei miti, la storia il loro deteriorarsi.

Come se argomentasse: - Eppure nella preistoria affonda le radici quella realtà  che si manifesterà nella storia, agguerrita, per distruggere i miti. -

Giovanni ha tante domande, ma resta in silenzio.

Lei apre il sorri­so: - Il primo impulso è di chiederti se sei contento di vedermi, anche se so che il tuo corpo è già ebbro di felicità. -

Torna a chinarsi sui piedi e dice con un lieve movimento in su delle spalle:

- E' solo per avviare il discorso. Ascolta: il dramma nasce dalla consapevolezza che la realtà ha origine  nello stesso momento in cui matura il mito. E l’uomo si tormenta: è il farsi e il disfarsi di un insieme che ha in sé elementi diversi solo in apparenza e invece sono differenti percezioni della nostra soggettività? E’ così! Mito e realtà, caro Giovanni,  hanno la stessa natura, sono eventi senza senso che toccano la vostra mutevole sensibilità -.

Sospende di nuovo la sua operazione e alza il viso con gli occhi umidi.

Finalmente Giovanni nella piena oscurità di ciò che ascolta e di ciò che lui stesso  dice, le chiede:

- Cosa vuoi? Cosa vuoi in cambio? - La sua voce è strozzata dal desiderio impetuoso di possederla.

- Nulla. Mi diverto così. -

Giovanni si controlla sapendo di essere destinato alla sconfitta. Tenta di bluffare.

- Allora... se ti diverti, se sei qui per divertirti, sei tu in debito...-

- Ipocrita... Oh così bonariamente!… è normale per l'uomo essere ipocrita. Certo è più appagante credere che il mito sia il passato-futuro, remoto, immaginato, forse raggiungibile, e che la realtà sia il presente, terribile, forse dominabile, che lavora ostinata  per cristallizzare i tuoi impulsi. Realizzerai davvero i tuoi sogni, Giovanni? Tu vuoi il potere; io sono una strega e posso dartelo. In cambio non voglio nulla. So che mi divertirò. Per fare un esempio, dice e contempla l'unghia prima di affrontarla con la limetta, tu vorresti fare adesso l'amore con me, bene! io posso darti tutte le donne che vuoi, con me però non..., altra pausa per studiare l'unghia, non scoperai mai. Questo mi diverte.-

Giovanni è profondamente turbato. Quello che lei dice è pericolo­so, intanto darebbe qualunque cosa per avere proprio lei, stor­dirla di piacere.

Come se d'improvviso fosse tornata la febbre alta, si accascia sul cuscino per terra, a cinquanta centimetri dai suoi piccoli piedi scuri. Il suo sesso in primo piano. La spossatezza lo aiuta e non si turba più di tanto.

- Perché sei venuta? chiede con voce fioca, poi come se la rispo­sta non lo riguardasse: Ma io... posso cambiare? -

- Non lo so e tutto sommato non mi importa - immerge la pietra grigia, di pomice, in una bacinella d'acqua che Giovanni non ha notato e comincia a grattare il tallone sinistro. Ha diva­ricato le gambe e la  postura questa volta  mostra proprio tutto. La pelle è di seta bruna, la carne è distribuita con maestria, muscoli tonici, niente ombra di cellulite, nessuna smagliatura. Il corpo è di sedicenne, il viso e l'espressione fanno promesse di trentenne.

- Vorresti innamorarti... è questo che vuoi dire? - smette di parlare per saggiare coi polpastrelli la pelle del tallone sini­stro.

- Vorresti incontrare una fanciulla, innamorarti di lei, lei che si innamori di te perdutamente...- lo guarda investigando i suoi occhi a lungo. - Tu non vuoi questo. Altrimenti non sarei venuta io.-

Giovanni ha un brivido e senza pronunciarsi tenta, con molta poca curiosità e voglia, qualche ipotesi su chi altri sarebbe venuto.

- Non so chi sarebbe venuto - risponde al suo pensiero riprenden­do in mano il piede.

- Subito una dimostrazione del mio potere. Devo renderti più attraente, devi essere come me simbolo del sesso. Non che tu non sia carino, con quegli occhi tenebrosi!, ma suvvia completiamo e perfezioniamo.-

La strega apre le ginocchia e incrocia le gambe, siede sul divano come un capo pelle­rossa e Giovanni vorrebbe infilarsi proprio là con la testa. Lei smette di curarsi i piedi, sorride al desiderio di Giovanni e ordina:

- Metti il sedere per terra e poggia i piedi contro il muro, gambe stese, dritto con le spalle, braccia incrociate. Sei pron­to? Chiudi gli occhi, rilassati, abbandonati, è un esperimento e  bastano pochi secondi. Uno due tre quattro cinque. Conta lenta­mente. Ti stai muovendo sulle natiche. Ti stai spostando indie­tro. Sono le gambe che si allungano… le cosce erano un po' corte… anche i pantaloni del pigiama non ti preoccupare. Stai crescendo quel tanto che può bastare perché le tue membra siano proporzionate e di una misura più su. Sei pronto? Alzati. Vai allo specchio. Ammirati.-

Prende in mano la pietra per occuparsi dell'altro piede e aggiun­ge, mentre lui  ubbidiente e stordito si avvicina allo specchio:

- Spogliati. Avrai altre piacevoli sorprese.-

Giovanni, come un bambino che si sia infangato il vestito nuovo, disorientato, è in piedi e si osserva, piegando lo sguardo tutto attorno al corpo. Lo specchio è di fronte, non gli rivela niente di nuovo, finché non affiora la percezione che forse è veramente più alto, poi, e la sensazione è più netta, il cambiamento che avverte è dentro il pigiama. Si spoglia titubante. Di colpo freneticamente, finalmente si guarda: le membra sono distribuite da antichi scultori greci in gara per perfezionare una sola statua, la sua pelle bruna è lucida, non grassa. Si avvicina per constatarlo oh meraviglia! il membro è più grosso polputo appeti­bile mirabile si espande diventa maestoso. La linea del glande, ai bordi turgidi, segue la curva classica segnata dai disegni, ovvero come si vorrebbe che fosse sulle splendide riviste omosex: una cappella stupenda robusto-possente, a occhio e croce venti­cinque centimetri.

Giovanni la guarda. Quella donna sarà sua. Lei è intenta sul piede destro e senza alzare lo sguardo: - Va bene così? - dice e alza il viso verso di lui che si è blocca­to davanti al cuscino.

- Direi molto bene. Sì un bel lavoro. Ti ho dato prova dei miei poteri.- e riprende in mano il suo piede.

Lei è vicina, a portata di pene. Cerca di agganciarla alla vita e sotto il vestito morbido e sottile il piccolo vortice dell'ombelico raccoglie la punta del suo naso. Il profumo di mille donne lo stordisce, insegue con le dita tutto quello che può e sfiora mondi inconoscibili con lo stupore di un ragazzo.

- Una sola volta, ti supplico, farò quello che vuoi.-

- Lo fai già.- La strega scoppia in una sonora risata, si libera, volteggia, gli mostra tutto ciò che lui ha conosciuto al tatto e si sposta sul divano.

Adesso c'è un'invisibile grata tra Giovanni e la strega. Si abbandona, di nuovo fiacco, sul grosso cuscino e piega la testa per osservare il suo membro eretto. Prova contem­poraneamente un dolore al cuore, allo stomaco, alla pancia e un oscuro solitario piacere dentro il cervello che valuta quel pene sorprendente e nota con brividi alla schiena che basta chinare il capo per imitare il pipistrello. Glande glande! pensa Giovanni teneramente con la bocca piena e la lingua che si muove leggera e calda sulla pelle viola. Oh pipistrello! Gli mancano le ali per appartarsi. La strega lo ha colmato di regali e resta tutta presa dai suoi piedi.

Il piacere dalla mente ritorna alla mente più intenso. Possiede il suo stesso corpo. Ha sulla lingua nel palato nel naso suoi nuovi sapori e odori; è un ripiegare su se stesso, un tenero, infinito rovistarsi; quelle sensazioni si espandono sulla pelle, dentro la pelle, in tutta la superficie del corpo fin dentro ai capelli.

Il dolore al ventre è il presentimento di qualcosa che la mente rifiuta. Lo stomaco e la pancia avvertono. Ma il loro linguaggio è diverso, ecco perché gli si gonfiano gli occhi e lacrime in breve scivolano sulle guance e vanno proprio lì. Giovanni piange mentre il cervello continua a godere. Rimangono due sfere irrime­diabilmente separate. Chi potrebbe avvertirlo, se non egli stes­so? E Giovanni è sordo ai suoi richiami. In realtà non vuole che la strega se ne vada e gli sta bene quel magnifico flauto bagnato delle sue stesse lacrime.

12.12.2006 

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